Conosciuti oggettivamente eventi, date, imprese e sconfitte, come rinnovare il sentirsi parte della storia, a distanza di anni? Penso che nasca da qui il desiderio, di discendenza romantica, di sentirsi accomunati da un’unica grande condizione: l’essere uomini e donne alle prese con un tempo che detta condizioni in cui agire. È forte la volontà di conoscere i grandi della storia nei loro anfratti più profondi, meno eclatanti, simili a noi; valorose imprese e condizioni agiate diventano stabile cornice dentro la quale indagare in che modo l’umanità, che è limiti e disincantata perfezione, abbia abitato e guidato re, imperatori, grandi condottieri.
Fino al 4 giugno 2023, a Bergamo Alta, attraverso la Cappella Colleoni, il Luogo Pio Colleoni e la Biblioteca Civica Angelo Mai, la mostra itinerante «Io, Medea. La leggenda bianca del Rinascimento Lombardo» (ingresso gratuito) regala la possibilità di entrare in punta di piedi nella vita privata di Bartolomeo Colleoni (Solza, 1392/1395 – Malpaga, 1475), attraverso la storia della figlia prediletta. La curatela storica di Gabriele Medolago con il coordinamento di Barbara Mazzoleni, in sinergia con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo, Progetto Coglia, Pro Loco Due Castelli Cavernago e Malaga e Comune di Cavernago, grazie alla disponibilità del Luogo Pio della Pietà Colleoni, conducono il visitatore in un dialogo privato con Medea, senza perdere mai di vista la cornice del Quattrocento italiano.
Qui, attraverso le parole della figlia, il valoroso capitano del monumento equestre di Verrocchio a Venezia, scende dal piedistallo per consegnarsi a noi, come sottolinea Maria Cristina Rodeschini, in una dimensione più intima, privata, «dove è la sfera sentimentale a venire toccata e messa alla prova».
Riguardo all’interessantissimo percorso espositivo di «Io, Medea» avevamo già scritto la settimana scorsa. Ora, un’intervista impossibile al nostro condottiero di ventura proverà a guidarci nella ricchezza presente in mostra.
CDM: È un onore intervistare un concittadino che ha portato in alto il nome della nostra città. Le sue valorose imprese belliche sono narrate in tutti i testi storici e conosciute ai più; sa, spesso è lunga la fila fuori dalla sua Cappella, in Piazza Duomo, per scongiurare un po’ di fortuna strofinando con forza il suo stemma. L’attuale mostra «Io, Medea» si propone però di indagare in modo particolare il suo rapporto con l’universo femminile.
BC: Penso sia dunque finita l’epoca in cui potevo esercitare un qualche controllo su quanto veniva detto e scritto a riguardo; i miei primi biografi, Antonio Cornazzano e Pietro Spino, fortunatamente si sono concentrati maggiormente sulle mie imprese di conquista, oltre che esaltare la mia imponente figura e prestanza fisica. In questo, poco mi discosto dal vostro presente: chi non utilizzerebbe, ancora oggi, queste virtù nei confronti dello splendido universo femminile?! L’invidia di tanti miei detrattori, soprattutto spie e cortigiani degli Sforza, ha addirittura parlato di “debolezza” nei confronti del gentil sesso. Eppure, io credo che il rapporto con le donne della mia famiglia sia stato uno dei tasselli fondanti della mia vita; sarò sempre grato alla mia cara madre, Riccadonna de Vavassori di Medolago e alla mia dolce moglie Tisma (Tisbe), appartenente alla nobile e ricca famiglia bresciana dei Martinengo della Mottella. Tisbe è stata l’unica vera donna della mia vita, sebbene solo due delle mie otto figlie (Ursina e Caterina) siano anche sue; non si è mai rifiutata di allevare e crescere, nel proprio palazzo di Martinengo, anche le altre, nate da relazioni provvisorie, di cui non voglio fare menzione. Care, per sempre, le mie figlie: Isotta, Cassandra, Polissena, Doratina, Riccadonna e Medea. Già, Medea…
CDM: Alcune fonti sottolineano come la piccola Medea sia stata la sua figlia prediletta, a lei «carissima pyu cha le altre». Non deve essere stato facile sopravviverle, veder troncati i sogni e le aspettative risposte in quella dolce ragazza di soli tredici anni.
BC: 6 marzo 1470. Ricorderò per sempre quel giorno come il peggiore della mia vita; nessuna disfatta, nessun tradimento avrebbe potuto superare quel dolore; la mia piccola Medea non c’era più e nessuna grande conquista avrebbe potuto restituirmi l’amore e la tenerezza di quella ragazza speciale, a cui avevo già lasciato nel 1476 l’eredità maggiore (5000 ducati). Con lei se ne andavano progetti e parte del mio futuro, sebbene avessi più di settant’anni. Con la sua malattia ho frenato i miei affari, con la sua morte ho versato lacrime vere, da padre anziano, ormai in difficoltà a canalizzare i sentimenti. Io, uomo inflessibile, duro condottiero, non ce l’ho più fatta. Si è manifestata, per la prima volta, tutta la mia umana debolezza.
CDM: È sempre stato un padre molto presente per le sue figlie, soprattutto nel cercare per loro mariti alla loro altezza. Ci può raccontare che cosa rappresentavano i matrimoni nel Quattrocento?
BC: Pura strategia, affari politici tra famiglie. Vuole dirmi che ora non è così?! Ammetto di essere stato sempre molto attento a questo aspetto, sfruttando tutta la destrezza maturata come condottiero. Si sa, i matrimoni con dinastie principesche erano un forte vincolo di nobilitazione, nonché un punto di partenza per ambire a grandi traguardi. Fa bene Maria Nadia Corvini, nei pannelli in mostra, a ricordare l’esempio dell’astuta trovata di Francesco Sforza, che sposò la giovane Bianca Maria Visconti e poi divenne duca di Milano grazie alle nozze e alle sue milizie. Io, per le mie figlie, in una prima fase ho prediletto condottieri interni allo Stato Veneto, mentre, nella seconda, piccoli signori che avevano proprie giurisdizioni non lontano dai confini della Repubblica Veneta.
CDM: E per Medea? Era già segnato il suo destino? In mostra sono presentati alcuni carteggi che, tra ipotesi più o meno realistiche, fanno capire che qualche piano su di lei si stava già movendo.
BC: Medea era la mia figlia prediletta. Come avrei potuto non muovermi per tempo? A lei sarebbe dovuta spettare una vita nobile, accanto a un uomo valoroso e altamente selezionato nella possibilità di giovare anche ai miei progetti politici. Non meritava meno, inoltre, la dote cospicua che le avrei assegnato. I candidati, per i quali negoziai tra il 1465 e il 1467, erano un figlio del Marchese di Mantova Ludovico III Gonzaga o Angelo Piccinino, con l’intento di riconciliare una vecchia inimicizia; si era presentata l’ipotesi di Ercole d’Este, che avrei reso governatore delle mie truppe e sarebbe stato una buona possibilità per rinsaldare l’accordo politico tra Venezia, i Gonzaga e gli Este, per l’appunto. Nel 1466 Bianca Maria Visconti voleva dare in sposo a Medea un suo figlio (Filippo Maria, Sforza Maria o Ludovico il Moro), per allearsi con me nella difesa del ducato, debole dopo la morte di Francesco Sforza. Mentre si preparava la guerra in Romagna, invece, avevo ipotizzato anche un’unione con Costanzo Sforza, figlio di Alessandro, signore di Pesaro. Fu tutto vano: non si arrivò a nessun risultato, mentre Medea era all’oscuro di tutto. E così è stato, per tutta la sua breve e innocente vita.
CDM: La profonda umanità del suo rapporto con Medea, in contrasto con la più nota immagine di duro capitano di ventura, è stata oggetto di grande attenzione nell’Ottocento. Ora, nel Luogo Pio Colleoni, sono esposte due opere che la ritraggono nella relazione con la morte di sua figlia. Cosa si prova, a distanza di secoli, a vedersi rappresentato, a sentirsi descritto in un sentimento così profondo?
BC: Come tutte le emozioni più forti e pure, ammetto l’impossibilità di un ritratto che possa essere esaustivo. C’è da dire che, per quanto mi hanno detto, il Romanticismo ha individuato situazioni che potessero essere ideali per celebrare la storia, unitamente però alla leggenda e alle emozioni. E come biasimare la volontà di ritrarre un nobile condottiero distrutto per la morte di sua figlia? Sembrerebbe proprio una leggenda, se non fosse realtà. Certo, sono felice di vedere come la storia della mia famiglia, al di là delle mie conquiste, possa raccontare ancora qualcosa alla città di Bergamo. Mi commuove vedere, ne «L’ultimo saluto di Bartolomeo Colleoni alla salma della figlia Medea» (1871) di Ponziano Loverini come sia stata rappresentata la tenerezza con cui delicatamente discosto il velo della bella Medea per un ultimo affettuoso saluto. È emozionante, invece, rivivere il momento della consegna del monumento funebre da me tanto voluto in «Bartolomeo Colleoni e Giovanni Antonio Amedeo alla tomba di Medea» di Giovanni Beri. Dice bene Maria Cristina Rodeschini, quando definisce quest’opera un «caleidoscopio di sentimenti»: ritrovo ammirazione, commozione, stupore, vita.
CDM: Il monumento funebre di Medea, tra l’altro, è stato definito «la più bella delle effigi che riposa in terra lombarda». Inizia da lì il viaggio proposto da «Io, Medea», dando la possibilità ai visitatori di imbattersi nella giovane, secondo l’immagine e la sembianza volute da lei e realizzate dall’Amadeo.
BC: Penso che non potessero fare scelta migliore; Medea, lì, è incredibilmente bella, è davvero lei. Per esorcizzare un dolore così grande non potevo non interpellare per la realizzazione Giovanni Antonio Amadeo, diventato poi uno dei maggiori architetti e scultori lombardi del primo Rinascimento. Ha creato un monumento degno di nota, dove trovano casa tutti gli ideali di bellezza del tempo e non mancano evidenti richiami alla nobiltà della nostra famiglia. Ho saputo che dal 1842 è stata spostata dalla Basella di Urgnano all’interno della mia Cappella: è un gesto che apprezzo perché, in un certo senso, ci ha ricongiunti; a distanza di anni, il mio personalissimo mausoleo in Bergamo Alta racconta anche la grandezza del mio amore di padre. Così, sembrano trovare nuova linfa le ghirlande d’alloro, le coroncine e i fiori che adornano il monumento: Medea è rinata, nel rapporto con me, con i bergamaschi, e con tutti i visitatori.