Tutto è (e finalmente forse possiamo azzardarci a dire era) “fermo” nella zona rossa. La città, sospesa. Ma l’arte può sempre muoversi in libertà, cogliendoci di sorpresa, finalmente.
Così, senza essere in alcun modo annunciata, è comparsa sulle grandi facciate del palazzo che ospitava lo storico Teatro Nuovo, all’incrocio tra via Verdi e Largo Belotti, l’incursione urbana dell’artista Guido Nosari De Danieli. È apparsa una ventina di giorni fa, con l’intenzione di essere un grido nel silenzio, e ora intende accompagnarci nella nostra “ripartenza”, fino al 10 maggio.
Cucire racconti, condivisioni, memorie
Guido vive e opera a Bergamo, ma nel cuore creativo è un cosmopolita, sempre in cerca di territori differenti con cui interagire attraverso le sue opere, dalla Sinagoga Centraledi Berlino allo Shangyuan Modern Art Museum di Pechino e prossimamente al Broletto di Como per Miniartextil, la storica manifestazione dedicata alla Fiber Art. Con puntate, naturalmente, anche nella nostra città, dal Museo Bernareggi alla Galleria Vanna Casati.
Può essere che il suo lavoro lo abbiate già incontrato ma che oggi abbia già cambiato pelle, perché Guido è un artista che non teme, anzi cerca, la sfida del cambiamento. Alla faccia di quella cosiddetta “coerenza” che per molti artisti diventa il pretesto per la ripetizione seriale, per assecondare i desiderata del mercato dell’arte.
Unico punto fermo negli ultimi anni, per Guido è il linguaggio del cucito, che in questa nuova installazione prova a rammendare le ferite delle nostre solitudini e a ricucire al tessuto urbano uno spazio storico “svuotato” di memoria (e appena scampato a un destino da supermercato).
Il pensiero che l’artista vuole condividere con la città sbandiera proprio dalle finestre e dai balconi di quello che è stato il glorioso Teatro e poi Cinema Nuovo di Bergamo, il “modernissimo politeama” inaugurato nel 1901 e chiuso nel 2005, che ospitò sul palco attori, giocolieri, protagonisti della cultura italiana, dal grande Rastelli a Gandusio, Falconi e le sorelle Gramatica, da Gabriele D’Annunzio al patriota Cesare Battisti, fino al grande trasformista Fregoli e, più avanti, al cabaret di Dario Fo, Franca Rame, Paolo Rossi.
L’installazione
Da questa casa della storia che ha allentato il nodo con la sua di storia, Guido fa sventolare undici, grandi tovaglie circolari. Al centro un unico piatto. Sfilate via dalle “nostre” tavole, un tempo imbandite di cibo, parole, pensieri e relazioni, come in uno di quei numeri di magia che andavano in scena al Teatro Nuovo.
Sfuggite alla forza di gravità, si librano nell’aria come bandiere delle nostre solitudini, quelle che la pandemia ci ha costretto a provare: “Il presente, anche quello più buio, è l’unica cosa con cui possiamo creare. Per questo, un’incursione artistica per svelare le potenzialità del presente è sempre un atto di rivolta – spiega Guido Nosari – All’interno dell’opera, poi, confluiscono i pensieri accumulati. E quest’anno in particolare abbiamo accumulato solitudine e necessità di una consapevolezza del cambiamento. La solitudine è una tavola troppo grande per ospitare un solo piatto, sulla quale trascorrono le nuvole della tradizione cinese, che significano cambiamento. Né positivo né negativo. Semplicemente, inevitabilmente, un cambiamento”.
Opere da guardare, dunque, da pensare, ma anche da sfogliare: “Il cucito e la sovrapposizione dei tessuti – prosegue l’artista – invogliano a sfogliare finché non si arriva all’ultima pagina. Per trovare la verità dentro l’opera”.
Una verità che può anche essere differente per ciascuno di noi. Chiara Del Monte, co-curatrice dell’installazione insieme a Giovanni Berera, ci offre la sua: “Ogni tavola ben preparata, porta con sé l’idea di essere disfatta. Di un servizio temporaneo a cui non si rinuncia, perché proprio nella breve durata si cela la sua bellezza. In questa temporalità si inseriscono delle nuvole quasi senza tempo, simbolo di cambiamento. Sembrano incedere lentamente, sulle storie di ciascuno, soffiando forte un unico desiderio. Che tutto passi”.
L’arte? Dono illogico, antieconomico, libero
Vale la pena conoscere il pensiero di un artista anticonvenzionale come Guido, cui lasciamo la parola: “Mi vien voglia di gridare perché l’arte non conta niente, non serve a niente, non aiuta nessuno e non risolve problemi. Mi vien voglia di piangere perché nonostante questo non riesco a pensare ad altro, a farne a meno. Nel mio bisogno di fare arte c’è compressa tutta la mia inutilità.
Quest’anno mi è stato più chiaro: davanti alle morti, alla tragedia, al silenzio, non potevo fare nulla, non ne avevo neppure il diritto: ho coltivato una sapienza delle mani e ho affinato le mie capacità per essere completamente inutile nel momento del bisogno”.
E ancora, con estremo realismo: “Non ascoltate chi dice che l’arte è ‘una priorità per la gente’, ‘un bisogno’ o ‘un diritto’, sono solo tutte parole che suonano bene. L’arte è un bisogno per chi la fa, per chi non sa fare altro nella e della vita”. Il pubblico, l’abbiamo visto quest’anno più che mai, “vive bene senza esposizioni, senza provocazioni, senza dibattiti inutili. Qualcos’altro sempre è pronto a intrattenerlo, e se l’arte, per come la concepisco, deve gareggiare per intrattenere, allora perde in partenza, umiliandosi”.
Eppure “questa cosa che io chiamo arte si rafforza nel disinteresse, cresce grazie a chi la ostacola, la censura (impegnatevi burocrati, fate il vostro inconsapevole lavoro per rendere grande l’arte!), diventa vera arte quando sfugge a ogni dinamica sociale e di funzione. L’arte è sempre un dono gratuito, perché atto illogico e antieconomico, non-utile, uno spingersi proprio laddove consapevolmente non vi sarà chi la ripaga”.
E non facciamo finta “che stia tutto nel ‘non poter dare un prezzo all’arte’, sarebbe ipocrita solo dirlo. Cosa vuol dire veramente aver posto undici opere di arte tessile sulle balconate di un palazzo, nel centro di una città straziata da più di un anno? Vuole dire ricordare che c’è una parte di noi non-utile, non utilizzabile, liberamente donabile senza aspettarsi alcunché. Questa parte di noi è l’unica che non può essere oppressa, perché sfugge a ogni dinamica di controllo negandosi valore, funzione e regalandosi all’altro. Ogni volta che vi chiederete cosa significa un atto artistico, rinunciate a cercarne un motivo, una funzione, e abbracciatelo nella sua rivoluzionaria debolezza. Una persona che guarda un’opera d’arte è una persona che, solo per un momento, non può essere privata di alcunché, perché è pronta a offrire tutto. Penso che questa consapevolezza sia l’unico dono che si può fare al pubblico, l’unico vero motivo per esporre arte oggi”.