Con «Piccio IN Carrara», i riflettori tornano a puntare su uno dei pittori che amiamo di più. Uno dei nostri, possiamo dire, visto che a Bergamo Giovanni Carnovali ha trascorso buona parte della sua vita professionale, compresa la formazione artistica. È anche tra gli autori più ambiti dal collezionismo, con quotazioni importanti sul mercato antiquario, tanto che nel tempo nel suo catalogo sono state infilate una quantità di opere che non gli appartenevano. Addirittura, quando Renzo Mangili si propose di fare ordine pubblicando nel 2014 il «Catalogo generale delle opere» (Lubrina Bramani editore), scoppiò un vero putiferio – per non definirle indignate sollevazioni – contro le numerose (e anche illustri) “bocciature” inflitte dallo studioso.
Piccio, che mai trovò pace in vita, non trova dunque pace nemmeno un secolo e mezzo dopo la sua morte e, per quanto sia unanimemente riconosciuto come un “rivoluzionario” della pittura, non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso quella certa aura provinciale che a tutt’oggi gli ha impedito di prendersi il meritato posto tra i protagonisti della pittura europea dell’Ottocento.
Il percorso espositivo
Con questo nuovo affondo espositivo, il direttore della Carrara Maria Cristina Rodeschini inaugura il nuovo format “In”, pensato per innestare nell’itinerario del museo opere che non appartengono alle sue collezioni ma che possono innescare, attorno agli autori più rappresentati in pinacoteca, il disegno di percorsi, relazioni e narrazioni inediti.
Così fino al 12 giugno, tre nuovi prestiti di eccezionale qualità e raramente esposti al pubblico, dialogano con i 14 dipinti custoditi in Carrara, per raccontare il mondo di Giovanni Carnovali detto Piccio: «Ritratto di Gina Caccia (La collana verde)», proveniente da una collezione privata, «Paesaggio a Brembate Sotto» dalla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, e «Ritratto di Vittore Tasca» dalla Fondazione Bettino Craxi.
I tre dipinti ospiti ci calano nel periodo della piena maturità del pittore, il decennio 1860-1870, e in quell’habitat di sincera amicizia e protezione con cui la buona borghesia liberale bergamasca – che coincide con il collezionismo più aperto – accoglie Piccio nella propria vita. Sono gli anni in cui si fa l’Italia, e i Tasca, i Caccia, i Moretti, i Morlacchi, famiglie che condividono legami di parentela e ideali patriottici, sono per l’artista più di semplici clienti e mecenati. Piccio abita con loro nelle ville di Brembate Sotto, è coccolato come il ritrattista di famiglia, frequenta gli stessi amici. Ma, al di fuori del clan familiare, l’inquieta ricerca di Piccio di una pittura “di tocco” nuova e diversa, tutta giocata sulla luce e sul colore, non fu compresa, anzi aspramente osteggiata.
Le donne dello “scandalo”
A “indignare” l’intellighenzia artistica del tempo fu soprattutto un drappello di donne, che lasciarono a Piccio la libertà di utilizzare la loro immagine per sperimentare una nuova pittura di “dissolvenza”, tutta luce e colore, precorritrice della pittura scapigliata e delle impressioni di luce della pittura francese.
In questo contesto, si presenta da solo quel vero capolavoro “ottico” che è il «Ritratto di Gina Caccia (La collana verde)» dove tutto, «anche l’ombra è colore». Le circostanze in cui nasce il dipinto sono note, se almeno prestiamo fede a quanto riferito dal Caversazzi (1946): «La Caccia è ritratta quale si offerse al pittore, affacciata alla soglia della villa di Vittore Tasca per vedere chi fosse entrato dal cancello del giardino. Era il Piccio; che subito, allungando il braccio, esclamò: - così! così! – E così la ritrasse».
Un’istantanea dunque, anche se il gesto istintivo della giovane che alza la mano a ripararsi gli occhi dal sole diventa per Piccio l’occasione di “trascrivere” uno spartito luminoso: la luce investe la giovane sfioccandone i contorni e interagisce con il colore, modificandone la temperatura nell’ombra proiettata dalla mano sul viso, e facendo invece brillare di iridescenze le sfere di quella collana verde che non a caso darà al dipinto una suggestiva variante del titolo.
Come poteva questa pittura del Piccio, tutta luce e colore, verità e dolcezza di sentimento, incontrare il gusto della cultura ufficiale del tempo, deliziata dalla teatralità e dal melodramma neoclassico dell’«Antigone» di Giuseppe Diotti (maestro del Carnovali alla Carrara, che prima accolse con entusiasmo l’enfant prodige per poi ripudiarlo bruscamente) o dal romanticismo languido e rifinito di un Francesco Hayez?
Lo stesso vale per altre “compagne” di Gina, a cominciare da Gigia Riccardi, giovane gentildonna bergamasca immortalata dal Piccio in un ritratto custodito in Carrara, con i lunghi capelli sciolti, il capo inclinato come se si fosse voltata all’improvviso, con una pittura liquida e sfatta. E ancora, sempre in Carrara, le tre «Flore» (o «Giovani donne con fiori»), apparizioni che alla fine degli anni Sessanta Piccio lascia al suo mecenate Daniele Farina di Bonate Sotto.
Sarà proprio l’ingegner Farina a rilevare la celebre «Pala di Agar nel deserto», che Piccio termina nel 1863, una trentina d’anni dopo la sua commissione, per vedersela rifiutata dalla fabbriceria parrocchiale di Alzano Lombardo come uno «sgorbio né disegnato né dipinto». Approdata successivamente in Carrara, la «Pala di Agar», di cui il museo conserva uno dei numerosi bozzetti, oggi ha ripreso il suo posto nella Cappella del Rosario nella Basilica di San Martino, e quella che era stata respinta come “non pittura” vi è oggi celebrata come autentico capolavoro religioso del romanticismo italiano.
Così la storia ha fatto pace con quella «nuova e magica maniera di dipingere» (Gabriele Stefani) che il tempo di Piccio proprio non poteva e non riusciva a comprendere. La riconosceranno, invece, e molto bene, prima ancora della critica, protagonisti dell’arte del Novecento come Previati, Carrà e De Chirico. Forse dobbiamo dare ragione a Francesco Rossi, quando scrisse a proposito del leggendario viaggio di Piccio a Parigi: «E magari vi fosse tornato più tardi, diciamo negli anni ’60, e vi fosse rimasto, a Parigi: avrebbe potuto magari partecipare al Salon des Refusès, e la storia dell’arte italiana avrebbe avuto un altro corso…».