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#fuoricasa: Francesca Ceccherini, dedicarsi all’arte come curatrice nell’attivissima Zurigo

Racconto. La bergamasca ha deciso di migrare nella più meritocratica Svizzera per lavorare nel campo nell’arte, ma non come artista. Una scelta carica di riflessioni

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Francesca Ceccherini (foto Axel Crettenand)

Da pochi giorni l’ex centrale elettrica di Daste e Spalenga, oggi solo Daste, a Celadina ospita un bellissimo bistrò con ristorante. Nel suo vecchio cortile tirato a lucido ci sono tavolini dove le persone si ritrovano in cerca di un brindisi alla normalità. Presto arriverà anche una sala cinematografica firmata Lab80 e il rinascimento di questo luogo potrebbe trainare la riqualificazione dell’intera area. Un grande progetto che trasforma gli spazi, come del restosta accadendo in centro. Via gli alberi in Piazza Dante (non senza polemiche), via la terra e la fontana ed ecco che oggi si possono vedere, come fossero enormi gusci, le coperture dell’ex Albergo Diurno, un vecchio rifugio antiaereo trasformato poi in cittadella sotterranea con tanto di bagni pubblici e vasche da bagno all’inizio degli anni Cinquanta.

Due luoghi destinati a una nuova vita e accomunati da un passato prossimo comune in nome dell’arte, grazie a Contemporary Locus, una realtà indipendente bergamasca, che li ha riaperti insieme a molti altri, quando ancora poche persone li conoscevano, svelandone il fascino nascosto con installazioni e mostre temporanee. Alla regia del progetto dal 2012 tre donne: Paola Tognon, Francesca Ceccherini ed Elisa Bernardoni. “L’idea dietro questo grande contenitore di arte e pratiche culturali era quella di uscire dai canali più istituzionali e provare a interrogare il contesto sociale urbano in cui vivevamo. Fin dall’inizio ci siamo rivolte a luoghi in stato di abbandono o dimenticati, che chiedevano certamente più cure e attenzioni, risvegliandone la storia e l’identità attraverso la lente dell’arte e di progetti site specific”.

A parlare è Francesca direttamente in web-cam da Zurigo. Sullo sfondo, dietro di lei pile di scatoloni. Da pochissimo ha terminato il trasloco che l’ha portata in Svizzera, prima part-time e ora stabilmente, spinta dalla sua passione per la ricerca e l’arte contemporanea. Un amore nato sui banchi del Vittorio Emanuele, proseguito alla IULM e cresciuto con un’esperienza alla Triennale di Milano, ma è anche all’estero che ora la giovane curatrice bergamasca ha scelto di costruire la sua attività professionale.

La scelta è caduta su Zurigo, “la città del dadaismo, l’avanguardia storica più visionaria e quella che più ha sollecitato la mia immaginazione dai tempi delle scuole superiori – racconta. È stato il mio professore di storia dell’arte Diego Bonifaccio a parlarcene a lezione e io ne sono rimasta affascinata. Zurigo è stata la casa del Dada, ospitando artisti da tutta Europa in tempo di guerra, offrendo un territorio su cui costruire nuove esperienze e linguaggi in risposta all’azione bellica che, per la prima volta nella storia dell’arte, lasciavano spazio anche alla partecipazione delle artiste donne. “Nella decisione che ha guidato la scelta della città in cui avrei seguito il mio master, tra Zurigo, Londra e Amsterdam, questa esperienza mi ha certamente pungolato”.

Così Francesca Ceccherini si è iscritta a un corso post laurea in Advanced Studies in Curating a Zurigo, un corso che dava moltissima attenzione al tema dell’attivismo nelle pratiche dell’arte. “Credo molto – spiega – in questa relazione e spesso collaboro con artisti che si occupano di migrazioni, resistenza, partecipazione e femminismo, che interrogano il nostro presente e in questo agiscono. Il master zurighese mi ha dato nuove prospettive per osservare il sistema culturale e mi ha dato l’occasione di riflettere su nuove metodologie, curatoriali capaci di dialogare con altri ambiti di ricerca e sollecitare esperienze che potessero attivare un riscontro sulla realtà delle persone”.

La sua risposta a questa riflessione è nell’arte. Un campo in cui Francesca non ha scelto di essere artista, ma curatrice e producer, ossia quella figura che “può essere la somma di diverse competenze per poter realizzare ricerche e progetti espositivi – spiega – Bisogna saper scrivere un testo critico certamente, ma anche sviluppare nuove metodologie e strategie, sapere fare ricerca nel presente e nel passato, come anche in altri campi del sapere umano, stilare business plan e fare budget, costruire relazioni con finanziatori per determinare economicamente i propri progetti, stringere partnership per la loro realizzazione e conoscere le strategie di comunicazione per promuoverli”.

Come curatrice e producer quindi Francesca dopo gli studi ha deciso di restare a Zurigo, dove nel frattempo avevo tessuto relazioni e avviato progetti, come Coreographing the Public, presentato con la Zurich University of the Arts all’Istituto Italiano di Cultura nel 2019: “un’occasione per portare artisti italiani all’estero, mission a cui tengo moltissimo. In quel caso è stata la volta di Virginia Zanetti, che ha coinvolto oltre 25 migranti e rifugiati in un’opera collettiva. Un primo progetto che ha dato il via a una serie di altre relazioni e collaborazioni. Tra queste c’è stato anche l’incontro con Eleonora Stassi, curatrice e pedagoga, con cui durante la pandemia è nato il collettivo curatoriale Zaira Oram, di cui fa parte anche la performer e social media manager Chloe Dall’Olio.

La prima creatura del gruppo è un museo interamente iconoclasta e digitale, OTO Sound Museum, che una volta al mese da spazio a opere d’arte esclusivamente sonore. “La volontà è presentare paesaggi sonori in cui lasciar viaggiare l’immaginazione attraverso il suono, evitando l’uso di immagini in un periodo in cui eravamo costretti al confinamento e bombardati costantemente da dati visivi. Ma l’esperienza di OTO prosegue anche oltre il 2020”.

Il museo nasce grazie a un bando promosso da Pro Helvetia, la fondazione federale per i progetti culturali, che Francesca ha vinto con Zaira Oram. “Ho avuto quest’opportunità dopo un solo anno che mi trovavo in Svizzera – ricorda – La meritocrazia in effetti qui esiste: un progetto può essere riconosciuto per il suo valore”. Francesca infatti racconterà di aver avviato un’altra collaborazione con il Johann Jacobs Museum, grazie a una mail scritta a maggio 2020 al suo direttore Roger M. Buergel, in cui gli proponeva un progetto. A un anno di distanza i due lavorano ancora insieme.

“Qui c’è un investimento davvero consistente sulla ricerca e sull’educazione e questo mi ha mostrato ancor più il buco enorme che abbiamo in Italia in termini di accesso culturale. Inoltre in Italia ci si rivolge spesso a un’elite: già con Contemporary Locus avevamo cercato di allontanarci da questa concezione, cercando di aprirci a pubblici diversi. L’aspetto che mi ha colpito più positivamente in Svizzera invece è proprio la spontaneità con cui le persone si avvicinano all’arte, certo dettata da un’educazione allo sguardo e ai linguaggi espressivi”.

Nonostante questo, il suo paese d’origine resta un terreno fertile di collaborazioni, da Roma dove ha di recente inaugurato “Losing Control”, una mostra di Giulio Bensasson allestita alla Fondazione Pastificio Cerere, sino a Bergamo, dove tornerà insieme al concittadino e artista Filippo Berta per presentare l’opera “One by one”, che entrerà a far parte della collezione pubblica della GAMeC dopo la mostra presso Nomas Foundation a Roma. Ed è proprio il museo cittadino secondo Francesca Ceccherini ad aver proposto uno dei progetti più vincenti in Italia in questo lungo periodo di chiusure.

“Radio Gamec ha ospitato personalità del mondo della cultura a 360° in un progetto online lanciato su Instagram, riuscendo a costruire un dibattito, uno spazio per l’ascolto e un pensiero libero”. Un tema carissimo alla curatrice bergamasca, che proprio in uno dei luoghi chiave dell’arte contemporanea italiana, all’inizio della sua carriera, ha sentito la sua vera inclinazione. “Quell’esperienza in Triennale dopo l’università mi ha fatto comprendere quanto il contesto istituzionale non facesse per me: dovevo uscire, stare fuori, essere indipendente e cercare di lavorare in un modo diverso, avvicinando le persone, che spesso nel nostro Paese provano quasi una sorta di soggezione nei confronti dell’arte, attivando ricerche fuori dai confini imposti dell’arte e non. Sconfinare è sempre stata una buona direzione, per vivere, lavorare, immaginare”.

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