Giacomo Manzù è il più grande scultore che Bergamo ha regalato al mondo. Proviamo quindi a tracciare un itinerario per immaginare una sorta di museo diffuso a lui dedicato. Tra opere e luoghi visitabili in città e in provincia. Dal micro dei piccoli lavori al macro delle sculture monumentali.
Una premessa sentimentale
“Io sono nato scultore anche se non sapevo cosa fosse uno scultore e cosa fossi io stesso. Fare lo scultore è una cosa tremendamente difficile”.
Giacomo Manzù
Ma perché Manzù lo amiamo così tanto? C’è qualcosa di diverso nei nostri incontri con le sue sculture. Un qualcosa che non ha niente da spartire con la passiva ammirazione per le opere generalmente “imposta” da tutti i manuali di storia dell’arte. I cardinali. Le donne in cammino. I bronzi che gridano contro la guerra. Le succose nature morte poggiate su sedie contadine, come pura poesia del quotidiano. Di fronte a queste opere scatta qualcosa di intimo e di affettivo. Non è possibile spiegarlo se non con quella inscindibile unità tra uomo e artista che Manzù incarna.
Manzù è infatti il prototipo più positivo delle contraddizioni che fanno di un bergamasco un vero, inconfondibile bergamasco. Un guscio ruvido e introverso che racchiude una sensibilità emotiva sottile. Mani tozze, nodose, segnate dal fare, che modellano la materia con una delicatezza commovente. Senza dimenticare l’autenticità dell’uomo che si è fatto da sé e conosce, accetta i propri pregi e i propri limiti. Ma non rinuncia mai a dire la sua verità. Un artista fortemente terreno ma che non dimentica mai la preghiera. Riconoscendo a Dio il merito di aver seminato bontà e bellezza nelle piccole cose.
Micro Manzù
Dell’artista pensiamo di sapere tutto. Eppure anche a Bergamo ci sono ancora luoghi poco noti, che hanno tanto da rivelarci dell’altro Manzù, quello meno celebrato. Allora cominciamo a spigolare a caccia di tesori – biografici e artistici – ancora segreti. Magari diversi dalle magie plastiche cui il nostro ci ha abituato. Ma capaci di avvicinarci ancora di più alla complessità di quei sentimenti che nell’arte di Manzù hanno fatto la differenza tra la freddezza dell’accademia e la personalità forte e unica di un Artista con la a maiuscola. Allo stesso tempo cantore della bellezza delle piccole cose e guerriero che denuncia le storture del mondo.
La “cappella” segreta
Via S. Alessandro 13, Bergamo: è qui che il 22 dicembre 1908 nasce Giacomo Manzoni. Il padre Angelo è il sacrestano della vicina chiesa di S. Alessandro in Colonna. Ed è nella soffitta della Basilica che nel 2008 sono venuti alla luce i “graffiti” che si ipotizzano di mano del giovane Manzù.
Occupando il tempo quando accompagnava il padre al lavoro, un Giacomo ancora adolescente probabilmente si rifugiava nel sottotetto dove si azionavano a mano i mantici dell’organo, disegnando a matita su queste pareti dimenticate. Gallerie di volti, luoghi, figure arcimboldesche, vedute campestri della città, stelle attorno alla finestra.
Proprio dal pulpito di sant’Alessandro aveva predicato per la prima volta, vent’anni prima, un giovanissimo Angelo Roncalli, assistito proprio dal padre di Manzù. Fu lo stesso Giovanni XXIII a raccontarlo all’artista: “Era il 29 gennaio del 1906, due anni dopo la mia ordinazione. La mia prima predica a Bergamo per il vespro di san Francesco di Sales, in Sant’Alessandro in Colonna. Papà Manzù mi accompagnò al pulpito sedendosi poi sui gradini. Cominciai titubante. Una predica allora durava minimo quaranta minuti. Arrivato a metà, suo padre, che ascoltava seduto ai miei piedi, vedendomi un po’ in difficoltà, mi tirò la veste e mi disse in dialetto: “Si faccia coraggio, don Angelo, che va benissimo”.
Nel dopoguerra la città fu colpita dalla terribile epidemia di spagnola e monsignor Capovilla, segretario del futuro pontefice, così ricorda il ragazzino Manzù: “Giacomo, che faceva il chierichetto, aiutava i sacerdoti di Sant’Alessandro in Colonna nel doloroso compito di portare al cimitero i malati di spagnola. Si caricavano i cadaveri su un carro senza sponde. Seguiva a piedi il desolato corteo, con una torcia. Tutti i giorni! Tanti morti! Una fossa comune!”.
Un luogo dell’infanzia, S. Alessandro, che spiega molto del Manzù grande scultore.
Manzù botanico
I “Trenta studi di erbe e fiori”, realizzati da Giacomo Manzù nel 1944 a Laveno, sono custoditi alla GAMeC. In una drammatica situazione storica, segnata dagli orrori della guerra, Giacomo trova ancora una volta rifugio nella natura.
In quest’opera di carattere privato c’è il Manzù che non conosciamo, ripiegato in una riflessione esistenziale a tu per tu con quelle povere erbe di campo, ritratte dal vero nel parco della villa De Angeli Frua (l’imprenditore tessile, collezionista d’arte e sostenitore di giovani artisti che lo ospitava sul Lago Maggiore). La “manona” di Manzù fa correre la penna, con rapidità e fermezza, sulla carta assorbente a tracciare un raffinatissimo erbario, che è in filigrana l’autoritratto di un’anima delicata, sempre assetata di bellezza.
I luoghi degli affetti
Manzù non dimentica mai di lasciare un segno nei luoghi cui la vita lo ha profondamente legato.
Nel 1977 ritorna per una visita alla sua Scuola elementare Cominetti di via Borfuro (dove oggi sorge il Tribunale di Bergamo), disegnando alla lavagna una natura morta con pera e mela. E poi c’è il “Busto di ragazzo” custodito al MAT-Museo Arte Tempo di Clusone che rievoca gli anni tra il 1943 e il 1945, quando Manzù a causa della guerra si ritira insieme alla moglie Tina e al figlio Pio a Clusone, ospite dell’amico Attilio Nani.
L’episodio che in pochi ricordano, invece, è che nel 1989 Manzù sceglie di donare a Fuipiano al Brembo, paese natale di sua madre Maria Angela Pesenti, un bassorilievo con “Ramo d’ulivo” che ancora oggi si osserva sulla fontana della piazza centrale.
La cerimonia di inaugurazione ha il sapore di una vera festa di comunità d’altri tempi, come documenta la video-cronaca di Umberto Galizzi in cui ritroviamo Manzù ottantunenne.
Macro Manzù
Bergamo è una sorta di grande parco della scultura di Manzù a cielo aperto. Tra chiostri, giardini e musei, ritroviamo infatti in sintesi tutti i temi più cari allo scultore, sviluppati in opere di grande dimensione.
La guerra e la memoria
In Piazza Matteotti si osserva l’opera più famosa di Manzù a Bergamo: il Monumento al Partigiano che lo scultore nel 1977 donò alla città in memoria dei genitori. Troppo cruento fu da alcuni giudicato all’epoca… Provate a leggere, se mai lo avete fatto, la dedica che l’artista ha lasciato sul retro e tutto avrà ancor più senso: ”Partigiano ti ho visto appeso immobile. Solo i capelli si muovevano leggermente sulla tua fronte. Era l’aria della sera che sottilmente strisciava nel silenzio e ti accarezzava, come avrei voluto fare io – Giacomo Manzù, 25 aprile 1977”.
La morte del partigiano per Manzù non è una semplice immagine, ma un ricordo personale e indelebile: “…nudo, aveva solo una maglietta, una povera maglietta consunta. Era bianchissimo contro il muro rosso…Ma soprattutto impressionanti erano le braccia, tese ad implorare la terra di accoglierlo, nudo com’era”.
Poco distante dal monumento alla Resistenza, si innalza l’obelisco del Monumento ai fratelli Calvi, progettato da Pino Pizzigoni e inaugurato nel 1933. Non tutti ricordano che fu proprio Manzù ad eseguire i bassorilievi in bronzo che ornano il pilastro marmoreo. È curioso ricordare come, a pochi giorni dall’inaugurazione del monumento, si pensò di ricorrere alle foglie di fico per sedare le polemiche cittadine sull’“indecenza” dei nudi maschili.
Siede nel chiostro un Grande Cardinale
Che cosa c’è di più geniale di un grande cardinale di Manzù? Osservate quello che se ne sta seduto nel Chiostro di Santa Marta della sede di Ubi Banca in Piazza Vittorio Veneto. Ancora una volta, alla radice è un ricordo indelebile: “La prima volta che vidi i cardinali fu in San Pietro nel 1934; mi impressionarono per le loro masse rigide, come tante statue, una serie di cubi allineati, e l’impulso a creare nella scultura una mia versione di quella realtà ineffabile, fu irresistibile” (Firenze, 1979).
L’invenzione è trasformare i cardinali in moduli “astratti”, strutture coniche fatte di piviale e mitra, solcate da pochissime ma profonde pieghe. Immobili, ieratici, i cardinali ci appaiono fragili uomini sotto la loro sontuosa corazza.
Il cestino, il gigante, le donne
La scultura più imponente che si incontra entrando nel giardino del palazzo della Provincia di Bergamo in via Tasso si intitola “Caravaggio” ma è piuttosto l’immagine dell’artista-combattente a riposo, sorpreso nella silenziosa meditazione sulla propria opera. Caravaggio c’è ma è tutto racchiuso nella splendida cesta di frutta posata ai piedi del gigante di bronzo (alto 250 cm circa). Non c’è partita: tra i due è il cestino il vero capolavoro di naturalismo.
È noto, poi, con quanta intensità Manzù abbia sempre affrontato il tema del ritratto femminile. Eccole qui due delle piccole, grandi donne di Manzù. La prima, “Tebe”, rannicchiata come un’eterna bambina nell’ovale degli affetti. La seconda, la “Donna che guarda” è icona universale che si erge solenne nello spazio lasciando che sul corpo si avviluppi un panneggio mosso e frastagliato proprio come una vela strapazzata dal vento.
Passione e tenerezza
Sono le sfumature dell’amore secondo Manzù che vanno in scena alla GAMeC. Nel cortile, l’abbraccio dei “Grandi amanti”, due figure – lei vestita, lui nudo – che diventano una cosa sola, “in movimento – scrive Manzù – fino a formare un tutto unico, proprio quell’immagine del sasso che non è massa inerte, ma concentrazione di potenza”.
Nella collezione permanente, invece, protagonista è l’amore familiare: il ritratto dell’amato figlio Pio, all’età di circa dieci anni. Le labbra chiuse, le palpebre abbassate, Pio è tutto assorto nei suoi pensieri di bambino. Sarà un astro nascente del design ma un incidente automobilistico se lo porterà via non ancora trentenne, nel 1969.
Manzù gli dedicherà un monumento all’interno del Cimitero monumentale. Insieme a Pio oggi riposa anche la prima moglie dello scultore, Antonia Oreni, e lì accanto è la sepoltura della famiglia Manzoni dove giacciono i genitori di Giacomo e le sue prime due figlie, Laurinia e Donatella, morte prematuramente.
In carrozza
È il tragitto compiuto dai due figli di Manzù, Giulia e Mileto, in bilico su una carrozza che Manzù sembra disegnare rapidamente, con un unico tratto elicoidale. Dopo decenni trascorsi sulla corte di ingresso dell’Accademia Carrara, in via San Tomaso, la scultura è stata infatti di recente trasferita in Città Alta, sulla terrazza panoramica dell’ex Collegio Baroni, sede dell’Università. Nel Duomo, in Piazza Vecchia, si osserva invece l’austera scultura dedicata dallo scultore a San Carlo Borromeo.
Un rapporto speciale
“Han parlato di amicizia fra me e papa Giovanni, ma uno scultore non può permettersi un’amicizia con un papa. Però mi voleva bene e io penso di aver avuto fortuna a conoscerlo”.
Per ritrovare quel legame speciale che legò Manzù a Giovanni XXIII è d’obbligo una visita alla raccolta del Museo di Ca’ Maitino a Sotto il Monte, dove si conservano il Ritratto del papa e i calchi del volto e della mano che Manzù realizzò dopo la sua morte.
E per i bambini Manzù a fumetti
“Allora ‘scultore’, come va la porta?” chiede Papa Giovanni XXIII. “Santità, non ce la faccio più” risponde Manzù.
Tutti sappiamo della sofferta gestazione della Porta della Morte per la Basilica di San Pietro, cui Giacomo Manzù lavorò dal 1947 al 1964. Certo è una sorpresa leggere questa vicenda nel volume a fumetti “I cruschi di Manzù” (Lavieri editore), che svela tra l’altro un aneddoto poco noto: chissà se la Porta della Morte sarebbe mai stata realizzata senza l’intercessione del sacerdote e intellettuale lucano don Giuseppe De Luca, ma soprattutto senza lo zampino di un piatto di croccanti peperoni “cruschi” – i tipici peperoni rossi essicati al sole della Basilicata – che riuscirono a conquistare Giovanni XXIII.
Strappa un sorriso ritrovare i protagonisti impegnati a discutere a tavola di un’opera destinata a segnare la storia, mentre un manipolo di peperoni cruschi parlanti danno il via a un simpatico siparietto. La seconda parte del fumetto, poi, è dedicata alla lettura di quell’intreccio tra dimensione artistica, umana e spirituale che ha reso la Porta di Manzù un capolavoro assoluto. Un modo diverso, dunque, adatto sia agli adulti che ai bambini, per ripercorrere sotto una luce diversa la riflessione che condusse alla Porta della Morte.