La visita alle nuove mostre della GAMeC (inaugurate il 14 ottobre) comincia, come di consueto, dopo la biglietteria, fatti pochi scalini, sulla destra. Lo «Spazio Zero» attende il visitatore con il suo eclettico potenziale, capace di ospitare nel tempo le più svariate installazioni site specific di artisti internazionali; chi è un frequentatore del museo cittadino è stato abituato, negli anni, a rimanere sorpreso dal carattere metamorfico che lo definisce. L’ampio spazio a disposizione concede infatti occasioni per evadere dalla canonica impostazione delle sale espositive, suscitando nel pubblico un celato desiderio di rimanere – ancora una volta – catturati, attratti, stupiti.
Fino all’8 gennaio 2023 è compito di Dora Budor, artista croata classe 1984, abitare questo spazio. «Incontinent», a cura di Sara Fumagalli e Valentina Gervasoni, svela come delle pareti, solitamente concepite per contenere e delimitare un luogo, possano essere, appunto, «incontinenti», «incontenibili». È un segreto, questo, non immediatamente percepibile al visitatore, che per empatizzare con l’artista ha bisogno di addentrarsi nell’istallazione, cercare un contatto, mettersi in ascolto.
A un primo impatto, infatti, lo «Spazio Zero» del museo, solitamente ampio, appare dimezzato, smorzato da una spessa parete che blocca la vista su qualsiasi presenza posta “al di là”. Dora Budor invita a inoltrarsi, ad abbandonare l’idea del muro come elemento divisorio: bisogna andare oltre, renderlo ponte, per divenire parte della sua riflessione sul mondo. Il consiglio, poi, è sempre quello di non lasciarsi sfuggire il prezioso aiuto offerto dal foglio di sala, vera e propria mappa per sentirsi meno disorientati di fronte a un’opera a primo impatto incomprensibile, oltre che occasione per prendere parte al percorso che ha portato quest’artista, per la prima volta, in una mostra personale presso un’istituzione italiana.
«Kollektorgang» : ritrovare Bregenz a Bergamo
Dora Budor ha percepito la sua installazione a Bergamo in soluzione di continuità con la mostra «Continent» (2022), presso la Kunsthaus Bregenz: qui aveva riprodotto tre sezioni di un tunnel che circonda le fondamenta sotterranee del museo austriaco, la cui funzione è impedire il collasso degli edifici adiacenti ed espellere le infiltrazioni di acqua e di fango provenienti dal suolo alluvionale su cui è costruito.
Il colore giallognolo delle pareti esterne, visibile a primo impatto, non è altro che un calco negativo (2021) realizzato con lattice di conservazione, che ha trattenuto a sé tutti i residui presenti sulla superficie parietale, come una sorta di epidermide spaziale. La Budor, in GAMeC, porta due delle tre pareti già esposte, seguendo un grande e conclamato obiettivo: dimostrare come la percezione di un’opera, mutando sede, subisca notevoli cambiamenti. In seguito, legandosi alla storia di un luogo, ne diventa parte a tutti gli effetti. I due calchi «Kollektorgang (I-XIV)» e «Kollektorgang (XV-XXIV)» creano così con la loro massiccia presenza un corridoio che circonda la stanza, svelando al visitatore l’originale funzione dello spazio che sta attraversando: la GAMeC, infatti, è l’attuale frutto del restauro del convento quattrocentesco delle Dimesse e delle Servite, a opera dell’architetto Vittorio Gregotti (1927-2020).
Storicamente, i corridoi erano punti nevralgici della vita monastica: favorivano la rapida circolazione dei messaggi che, proprio per la strettezza dello spazio, subivano a loro volta un controllo serrato. Le fondamenta del museo di Bregenz, che hanno metaforicamente permesso all’artista di incontrare il suo pubblico, diventano a Bergamo ricordo del passato della GAMeC, fino a farsi parte costitutiva del suo presente nella relazione con i suoi visitatori.
Alla velocità a cui sono esposte le pareti esterne si contrappone l’intimità meditativa di una sorta di cella, delimitata dalle parti interne del corridoio, che, non rivestite, sembrano sprofondare nel terreno, fondendosi con il grigio del pavimento. Per riprodurre verticalmente le pareti, l’artista ha utilizzato del cemento misto a carta, documenti scartati e tritati di alcuni uffici della città. L’apparente neutralità dell’interno è in realtà intrisa di infinite storie, echi lontani, mormorii subissati, ricerche interiori che non possono competere con l’assillante corsa delle informazioni all’esterno. Cosa serve per ristabilire la grigia neutralità? Quali voci appianare? Come tornare in pace con se stessi, in armonia e al passo con «il corridoio dei messaggi veloci»?
«Termites» : una pulsione meditativa
Il visitatore, appena si mette in ascolto di queste domande, viene colpito da un elemento discrepante rispetto al minimalismo della struttura principale: un deumidificatore produce in tutta la sala un riverbero sonoro continuo. Utilizzato dall’artista anche in tutte le fasi di realizzazione della mostra per favorire l’asciugatura delle pareti, sembra quasi voler rendere il passaggio del visitatore parte viva della realizzazione dell’opera.
L’unica differenza tra la fase preparatoria e quella fruitiva è data proprio dal suono emanato: «Termites» è il titolo dato al dotto di ventilazione abitato da alcuni sex-toys, modificati per funzionare ininterrottamente. L’industria del piacere si intromette nell’apparente integrità morale e meditativa dello spazio espositivo, come una sorta di tentazione godereccia e superficiale in contrasto con la dimensione intimistica creata dall’architettura.
«Love Streams», autentico processo di sottrazione
Nella stanza accanto, quasi in contrapposizione alla rigidità strutturale dell’istallazione principale, trovano spazio una serie di disegni che manifestano l’indole più istintiva, casuale e viscerale dell’artista. Nella sequenza di frottages tratti dalla serie «Love Streams», Dora Budor trova il modo di rilasciare la concentrazione accumulata durante un lavoro, seguendo una pratica artistica molto più libera, quasi terapeutica.
Questi disegni seguono un processo che non è controllabile in tutte le sue parti: gli antidepressivi che le sono stati prescritti, infatti, sono usati come sostanza marcante nello sfregamento sui muri e sui pavimenti del suo studio temporaneo a Berlino. Dora Budor si serve della cartavetrata, solitamente utilizzata per rimuovere del materiale da una superificie e, proprio per questo, custode tra le sue trame di quanto è stato sottratto. Un pezzo di sé, per noi, in un luogo dall’identità cangiante, dove confini fisici ed emotivi si rincorrono per confidare al visitatore parti di mondo. Da non perdere.