Un matrimonio da favola, quello tra Dante Alighieri e Salvador Dalì. Due “mostri sacri” che si incontrano, in una sintonia perfetta tra linguaggi lontani anni luce, non solo cronologicamente, ma che hanno un denominatore comune: il carattere visionario.
Fino al 24 ottobre, nei suggestivi spazi del Filandone di Martinengo, sono esposte le 100 xilografie originali, una per canto, con le quali il maestro spagnolo Salvador Dalì illustrò la Divina Commedia di Dante Alighieri. La mostra “Il Viaggio – Dalì incontra Dante” è curata da Art Events Mazzoleni e promossa dall’infopoint regionale Pro Loco Martinengo col patrocinio del Comune di Martinengo, in occasione delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Perché la mostra abbia già registrato ingressi record è facile comprenderlo: è l’incontro tra uno dei più grandi artisti del Novecento e uno dei grandi classici europei ed espone un capolavoro dell’edizione illustrata del Novecento, non troppo noto al grande pubblico, che si distanzia da qualsiasi precedente interpretazione figurativa del testo dantesco.
Psicoanalisi, metafisica, ironia, grottesco, misticismo, fantasy: le letture dell’ascesa visiva con cui Dalì ripercorre il viaggio di Dante si moltiplicano.
Noi abbiamo chiesto alla storica dell’arte Orietta Pinessi quali sono i motivi per visitare la mostra di Martinengo. La parola a Pinessi, con la doverosa premessa dello stesso Dalì: “L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo”.
Una storia controversa
Nel 1950, in vista della commemorazione del 700º anniversario della nascita di Dante Alighieri (molto in anticipo visto che si colloca nel 1265), l’Istituto Poligrafico dello Stato, sotto l’egida del governo italiano, commissionò a Dalí un ciclo di illustrazioni della Divina Commedia. Dalí vi lavorò per quasi nove anni, dando vita a 100 acquerelli che nel 1960 furono esposti al Musée Galliera di Parigi. Purtroppo l’opera, così come era stata inizialmente pensata, non vide mai la luce, a causa di una polemica sollevata da alcuni settori dell’opinione pubblica italiana e di un’interrogazione parlamentare di alcuni deputati, contrari al fatto che una simile impresa fosse affidata a un artista straniero. In realtà, rimane il dubbio che fosse proprio Dalì il problema (Il franchismo onorò a dovere l’artista, tornato dagli Stati Uniti in Spagna nel 1948, “Sono il simbolo che dimostra la tolleranza di Franco”, diceva Dalí).
Nel 1962 fu però l’editore fiorentino Mario Salani a riproporre l’idea, progettando in sinergia con la casa editrice Arti e Scienza di Roma un’edizione della Commedia in sei libri, due per ogni cantica, corredati dalle tavole di Dalí. Per trasporre gli acquerelli in xilografie furono impiegati 3000 legni, fino a 35 colori per ogni tavola. I partner scelti allo scopo erano quanto di meglio il panorama tipografico e cartario dell’epoca potesse offrire: il maestro incisore Raymond Jacquet di Parigi, il maestro tipografo Giovanni Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, le Cartiere Enrico Magnani di Pescia e le Cartiere francesi di Rives. La supervisione scientifica dell’opera fu affidata a Giovanni Nencioni, allora riconosciuto come il più autorevole tra gli studiosi della lingua italiana.
Una Divina Commedia a colori
“Poiché mi domandano la ragione per cui ho abbellito l’inferno con colori chiari rispondo che il romanticismo ha perpetrato l’ignominia di far credere che l’inferno fosse nero come le miniere di carbone di Gustave Dorè dove non si vede niente. Tutto ciò è falso, - scriveva Salvador Dalì - l’inferno di Dante è rischiarato dal sole e dal miele del Mediterraneo ed è per questo che i terrori delle mie illustrazioni sono analitici e supergelatinosi con il loro coefficiente di viscosità angelica”.
Ne scaturiscono colori ora grotteschi, ora dissacranti, ironici, drammatici, sensuali, estatici, allegorici e inaspettatamente armoniosi e sublimi. Cromie e segni trovano la loro massima unione nell’ispirazione data dal felice incontro tra questi due personaggi e la loro opera.
Un Summit della storia pittorica di Dalì
Osservare le opere del pittore spagnolo è un’esperienza affascinante, anche per chi non conosce a fondo la “Divina Commedia”, perché i quadri sono ricchissimi di particolari che attirano l’attenzione, hanno colori vivacissimi e personaggi che sembrano quasi parlare, tanta è la capacita espressiva di Dalí.
C’è tutto il repertorio dell’autore: figure molli, animali stranissimi, ossa che volano, donne che assumono le sembianze della Madonna, uomini che diventano titani. Egli riesce a mantenere la sognante atmosfera Dantesca, aggiungendo il suo inconfondibile tocco surrealista. Il soprannaturale si fonde con un’esplorazione audace della spiritualità, andando a creare una versione unica della Divina Commedia.
Figlia della sua conversione?
Entusiasta, in occasione dell’incarico, l’artista scrive: “Sono stato ateo durante l’infanzia e l’adolescenza. Sono diventato mistico attraversando le esperienze della giovinezza. Mi è stato commissionato un lavoro per una monumentale edizione italiana di un’opera che mi attrae fino all’ossessione perché vi ritrovo entrambi gli aspetti della mia vita.” Per niente intimidito dalla sfida, Dalí descrive l’epopea del viaggio dantesco verso la luce con immagini ispirate sia al classicismo rinascimentale che all’epoca in cui vive. In una sorta di proiezione autobiografica, l’artista apre il primo canto dell’Inferno con l’immagine del poeta nella piana dell’Empurdà, terra natale del pittore, assorto nella contemplazione della sua esistenza. L’apparizione di Beatrice, al termine della seconda Cantica, è invece, un chiaro tributo a Botticelli, che insieme a Raffaello è l’artista di riferimento nell’opera.
Tra Classicismo e Surrealismo
Numerosi i riferimenti alla mitologia classica e alla plasticità michelangiolesca, specie nei gironi dell’Inferno, come la rappresentazione di Caronte, colto di spalle, mentre maneggia il remo, con una sorta di ripresa degli studi michelangioleschi sul nudo.
Ma anche nel Purgatorio: i superbi piegati sotto il peso di massi che ne straziano il corpo e lo deformano fino alla rottura, o la straziante magrezza delle anime dei golosi ai piedi dell’albero delle delizie. Nel Paradiso, invece, lo stile diventa più libero e spontaneo.
La rappresentazione è comunque onirica e dissacrante insieme: Inferno, Purgatorio e Paradiso emergono sospesi fra sogno e realtà, in un capolavoro davvero unico, in cui all’eleganza del segno si coniuga un uso magistrale del colore. La figurazione è ironica e grottesca nelle rappresentazioni dell’Inferno e del Purgatorio, mentre delicatissime e celestiali sono le rappresentazioni di Beatrice. Questo fa pensare a un immaginario viaggio dell’artista dentro di sé.