Prima di cominciare, le controindicazioni: questa riflessione non è adatta a chi è ancora convinto che «la bellezza è negli occhi di chi guarda», che «non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace», che «la bellezza è ovunque», e così via… Tutto nasce da una singolare coincidenza, che però ci offre lo spunto per prendere atto della deriva verso cui si sono incamminati tutti gli attori dell’arte: committenti, collezionisti, artisti e spettatori, nessuno escluso.
C’è un desolante filo rosso che in questa calda estate unisce Iseo a Pietrasanta (Lucca), due cittadine splendide e battute da un turismo internazionale, che le rispettive amministrazioni locali hanno voluto imperlare di una mostra diffusa di scultura en plein air.
A Pietrasanta, che negli ultimi anni proprio per il suo legame con la scultura è stata soprannominata la «Piccola Atene», la mostra «Wonder of Love» di Marco Cornini è descritta come «l’evento artistico di punta dell’estate della città versiliese»: 40 sculture, molte delle quali di dimensioni monumentali, invadono il centro storico della città, da Piazza Duomo a Piazza Carducci fino alla Chiesa e al Chiostro di Sant’Agostino.
Protagonisti indiscussi delle sculture, neanche a dirlo, l’amore e soprattutto la figura femminile nella sua ammiccante declinazione soft-core , procace e atteggiata in pose provocanti, il più delle volte nuda come mamma l’ha fatta, talvolta ipocritamente coperta da un fazzolettino o strizzata in abitini invisibili come una seconda pelle. E che queste dive del trash siano mollemente distese su lettini e poltrone ad esibire, senza alcuna preoccupazione di eleganza, le proprie grazie in una chiesa – sconsacrata ma pur sempre una chiesa, con la sua storia, i suoi altari e le sue pale – rende il tutto ancor più irritante.
Le foto delle sculture di Cornini, postate sui social da sconcertati amici in vacanza a Pietrasanta, mi hanno immediatamente condotto al bel lungolago di Iseo, che per l’estate si è trasformato in una mostra-fotocopia della «Piccola Atene». In un paesaggio meraviglioso che di null’altro ha bisogno per farci sognare – ma su cui nel “Dopo-Christo” ci si accanisce artisticamente con esiti improbabili (attenzione… nel 2023 sono in arrivo le manone di Lorenzo Quinn!) troneggiano le “sculturone” di Giacinto Bosco, che con la mostra «Doppio sogno. L’amore tra mitologia e mitografia», punteggia il lungolago e l’Arsenale con 40 bronzi monumentali. Improbabili Adami ed Eve del terzo Millennio, rigorosamente nudi, si esibiscono goffamente nelle più banali acrobazie per raggiungere il loro poetico astro: la Luna.
Già il titolo volutamente bizantino della mostra dovrebbe insospettire… ma la presentazione delle opere è un capolavoro pindarico, che sfiora il comico: «La solidità del bronzo viene messa al servizio della leggerezza del sentimento d’amore… figure elementari quanto struggenti, che spesso anelano un contatto col satellite terrestre, sembrano librarsi mentre si dondolano su altalene appese al cielo, o tentano esercizi di equilibrio tenendosi sollevati su sedie e scale, arrampicandosi su funi. Da esse traspare la solennità di sentimenti antichi e primari, come quello dello stupore umano di fronte all’astro notturno, che fu cantato da poeti quali Ariosto, Leopardi e Borges e che ispirò musicisti quali Beethoven e Debussy che, a loro volta, sono modelli culturali e della tradizione per Bosco». La chiosa è del curatore: «Le sue figure hanno la leggerezza di un Peynet o di un Folon, ma nella solida resistenza del bronzo, gravi eppur leggere sono una plastica rappresentazione del desiderio desiderante che unisce la donna e l’uomo»... Desiderio desiderante ?!
Ma è qui che scatta l’interessante coincidenza: per le due mostre-fotocopia di Pietrasanta e di Iseo, stessa organizzazione – Liquid Art System di Franco Senesi – e stesso curatore, quell’Angelo Crespi che (pure) è stato direttore del settimanale Il Domenicale, consigliere del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, presidente di Palazzo Te di Mantova e del Museo Maga di Gallarate, nonché componente del CDA di importanti istituzioni culturali italiane quali Fondazione Triennale, Permanente e Piccolo Teatro di Milano, nonché autore di libri come «Ars Attack. Il bluff del contemporaneo», oppure «Costruito da dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali».
Il circo dell’arte
È proprio il tema di uno dei libri di Crespi, «Nostalgia della bellezza. Perché l’arte contemporanea ama il brutto e il mercato ci specula sopra», a fornirci le coordinate della nostra riflessione. Inutile nascondersi dietro caute premesse del tipo «non si discute la qualità dell’opera ma...». In queste operazioni appare tutto palesemente sfacciato. A opere se non brutte certamente banali sono offerti palcoscenici di eccezionale visibilità. E se i luoghi non sono adatti, come decisamente non è adatta la chiesa di S. Agostino, poco importa. Nulla può fermare l’occupazione del circo dell’arte.
E lo spettatore? Ci aspettiamo che inorridisca, allibisca, protesti. Niente affatto. Lo spettatore sgrana gli occhi, come inebetito, e trova tutto questo semplicemente, acriticamente «bello». Perché tutto ciò che viene proposto in luoghi così prestigiosi e che per giunta viene descritto con parole così poeticamente mirabolanti, deve per forza essere “qualcosa” di bello, importante, prestigioso.
Aveva astutamente ragione Giacinto Di Pietrantonio quando, appena nominato direttore della GAMeC di Bergamo, aveva intitolato la sua mostra d’esordio «Una mostra bellissima». Siamo davvero arrivati al punto in cui è sufficiente dire che un’opera è bellissima perché lo spettatore la veda bellissima?
C’erano una volta le avanguardie, il dibattito intellettuale, l’artista che incarnava l’essenza della libertà, coraggioso interprete di istanze innovative e progressiste o critico e sovversivo nei confronti della società stessa. Oggi, come scrive Meneguzzo ne «Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza sta cambiando l’arte» (Johan & Levi, 2020), tutti gli attori dell’arte rispondono a un unico diktat: la riconoscibilità, che si conquista solo con le strategie del marketing e del consumismo, le uniche capaci di soddisfare il gusto globalizzato e massificato.
I meccanismi dell’arte si sono fatti sempre più simili a quelli della pubblicità: l’arte è un prodotto che deve essere plasmato in serie, per andare incontro al gusto e al consenso di un pubblico omologato che, in buona fede, ha cieca fiducia nell’arte, in chi la fa e in chi la promuove. E mentre la didattica dell’arte e i servizi educativi dei musei sono sempre più considerati come “figli di un dio minore”, tutt’al più divertissement per bambini, ci scopriamo tutti vittime, ma in fondo anche complici, dell’universo di arrogante ignoranza del mercato: gli artisti, che in nome della riconoscibilità si lasciano ammaestrare dai diktat di un’arte obbediente alle regole del consumo; gli spettatori, che hanno rinunciato a un pensiero critico ed emotivo e a un’educazione all’arte e si limitano a battere meccanicamente le mani; i collezionisti, per i quali l’opera d’arte è diventata un souvenir di lusso e uno status symbol, al pari di uno yacht o di un abito firmato; i committenti, amministrazioni locali in primis, che si lasciano sedurre dalle sirene dell’arte ignorante senza opporre alcuna resistenza.
«Un annuncio pubblicitario che fa finta di essere arte è – quando va bene – come quando qualcuno vi sorride cordialmente solo perché vuole qualcosa da voi», ammonisce David Foster Wallace nel suo reportage «Una cosa divertente che non farò mai più». Un po’ di sana diffidenza non guasta, dunque, per muoversi nel circo artistico del nostro tempo.
(Si ringrazia Paola Silvia Ubiali per le foto delle opere di Marco Cornini)