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Cosa dissero di Bergamo gli artisti che la visitarono

Articolo. Nei secoli poeti, scrittori, archistar e registi hanno celebrato la città. Meno il suo dialetto

Lettura 6 min.

Non c’è spot, articolo o brochure turistica destinata a promuovere le meraviglie di Bergamo che non cada nella tentazione di citare le parole spese per la città da Stendhal, Hesse e Le Corbusier. In effetti, rivedere la nostra città attraverso le emozioni e gli occhi dei grandi ci riempie d’orgoglio e spesso vira di nuovo il nostro sguardo su una bellezza che spesso diamo per scontata.

Ma se sulla suggestione paesaggistica e sul patrimonio artistico il coro di lodi è unanime, c’è anche qualche stilettata riservata al “carattere” del bergamaschi e alle asprezze del nostro dialetto. Fa sorridere pensare a come certe impressioni, ancor oggi dure a morire, abbiano fama secolare. Forza dei pregiudizi o fondo di verità? A ognuno la propria idea, ma certo con il dialetto Dante e compagnia non ci andarono piano.

Un dialetto barbarissimo

Togliamoci subito il sassolino dalla scarpa e, prima di passare alle lodi, affrontiamo ciò che pensavano di noi e della nostra “lingua”. Il più cattivo è Dante Alighieri che il Bergamasco, insieme al Milanese e agli altri dialetti vicini, proprio non lo può sopportare, e lo schernisce nel suo “De vulgari eloquentia” (1305).

Ecco la traduzione: “Togliamo poi via (nel senso proprio di sradicare come erbacce, ndr) i Milanesi, i Bergamaschi e i loro vicini. Anche in questo caso ricordiamo che qualcuno per schernirli cantò: Enter l’ora del vesper, ciò fu del mes d’ochiover” (“Nell’ora del vespro, ciò avvenne nel mese d’ottobre” è un vespro alessandrino che gioca sulla patina dialettale dei troncamenti e delle asprezze di pronuncia, ndr)

A Dante fa eco, nel 1340, il poeta fiorentino Fazio degli Uberti, che nel suo “Dittamondo” è implacabile: “Passato il Serio, la Mella e lo Brenno / trovammo il Bergamasco in su la costa / che grosso parla ed ha sottil senno”.

Più sottile, ma non meno sferzante, nel 1580 il filosofo francese Michel de Montaigne: “quando un’idea è chiara, si può esprimere in qualunque modo, anche con gesti e perfino in bergamasco”.

Bergamaschi un po’ chiusi ma operosi

Quello del bergamasco un po’ musone ma gran lavoratore è un mito, insieme negativo e positivo, che ha radici lontane. Così ad esempio venivamo secoli fa da Marcantonio Michiel, forse il più grande critico d’arte italiano del Cinquecento. Soggiornò brevemente a Bergamo nel 1516 e nel 1517 al seguito del padre ivi provveditore e capitano della Serenissima e così ci descrisse: “I bergamaschi sono una specie di uomini probi, frugali, di piacevoli costumi e coi forestieri ospitali: uomini acuti e industriosi e che dovunque volgono l’ingegno divengono eccellenti; ma specialmente valgono nell’arricchire.”

Per il novelliere Matteo Bandello (1540 ca.): “bergamaschi costumati, discreti, modesti e gentili .. essi di rado si fanno cortigiani, non essendo molto atti agli uffici di Corte”.

A riscattarci sarà il distico, celebre anche se decisamente di parte, che nel 1940 ci dedicherà il nostro poeta in dialetto Giacinto Gambirasio: “Ol carater de la rasa bergamasca / Fiama de rar, sòta la sènder brasca” (“Carattere della razza bergamasca, fiamma di rado, ma sotto la cenere cova la brace”).

Francesco Petrarca (1359)

Arrivai così a Bergamo il 13 ottobre, verso sera, […] Come dunque fummo giunti alla città ecco che ci vengono incontro gli amici che con gran gioia mi accolgono”. Con queste parole Francesco Petrarca, descrive la sua venuta in città, ospite di Enrico Capra, orafo bergamasco che vive in Città Alta tra S. Pancrazio e S. Andrea. E scriveva a un amico di Forlì (in latino): “Ho qui sempre davanti agli occhi Bergamo, alpina città d’Italia”.

Stendhal (1801)

Marie-Henry Beyle, che anni dopo diventerà scrittore con lo pseudonimo di Stendhal, si trova a Bergamo come sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico. Nel 1801, dal balcone di Palazzo Terzi, dove era ospitato, fu rapito dalla sindrome cui poi darà il nome. Definì bergamo “Incantevole e di superba bellezza” e “Il più bel luogo della terra e il più affascinante mai visto“.

I Promessi Sposi (1827)

“…accennando col capo quella macchia biancastra che allora gli appariva ben più distinta, disse:“è Bergamo quel paese?”“La città di Bergamo” rispose il pescatore. L’apparizione di Bergamo a Renzo che sta attraversando l’Adda, prelude al “lieto fine”.
Renzo infatti fugge da Milano per raggiungere nel bergamasco il cugino Bortolo e a Bergamo non solo troverà lavoro in un filatoio, ma metterà su casa insieme a Lucia. In filigrana, Alessandro Manzoni ci restituisce un racconto di Bergamo come città operosa, soprattutto nel tessile, e meglio amministrata (da Venezia) rispetto alla vicina Milano.

Gabriele D’Annunzio

D’Annunzio racconta Bergamo almeno in due occasioni: “Bergamo, nella prima primavera / ti vidi, al novel tempo del pascore. / Parea fiorir Santa Maria Maggiore / Di rose in una cenere leggera” (da “Elettra”, 1903). E poi dalla trama di un discorso “Per il dominio dei cieli”, 1910 (autografo nella Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo): “Bergamo, la città geniale in sapienza e in prodezza in meditazione e in azione, solitaria e raccolta sul colle intorno al suo vecchio Palagio ove lo spirito del libero Comune dorme nel silenzio dei libri immemore di discordie e di tumulti, operosa e giovanile al piano, sonante di industrie ordinate, protesa alle conquiste più nuove, fatta sempre più capace a contenere e a versare la ricchezza di quelle immense cornucopie che sono le due valli; il popolo che in ogni tempo conciliò con la forza delle opere e la disciplina del pensiero, ed ebbe in Bartolomeo Colleoni invitto un protettore di poeti, in Francesco Nullo cavaliere di libertà un inventore di pratici ordegni, e impresse alle forme dell’arte una appassionata eleganza dagli intagli del Fantoni alle melodie del Donizetti, e scrutò i più profondi tesori del linguaggio, dal vetustissimo Mosè del Brolo ad Angelo Mai; Bergamo tenace nel custodire tutto il passato, audace nel percorrere tutto l’avvenire, così come serbò alla Serenissima la fede più sicura e impetuosamente accrebbe di tanto il suo gentil sangue la schiera dei Mille, così già oggi si prepara a vedere le novissime ali, foggiate con la sua tela più robusta, roteare intorno alla Torre di Gombito, eretta nel quadrivio sacro alle Feste agrarie”.

Herman Hesse (1913)

Al suo terzo viaggio in Italia, nel 1913 il grande scrittore visita la Lombardia, comprese le mete meno battute di Como, Bergamo e Cremona, regalandoci nel suo “Bildebuch” una delle più suggestive descrizioni della nostra città. Per tutti valga un solo passo: “…mi si dischiuse un panorama stupendo e del tutto diverso: sospeso al di sopra della città sulla piattaforma della funicolare, vidi profilarsi, tra me e la verde pianura che la lontananza sfumava, la silhouette compatta e altezzosa di Bergamo vecchia, con le sue torri e le sue cupole, le sue mura e i suoi tetti. Rimasi lì incantato; era un lembo dell’Italia più bella”.

Filippo De Pisis (1942)

Meno nota, ma davvero struggente la poesia “Notte a Bergamo” composta dal grande poeta, scrittore, pittore Filippo De Pisis: “Sul baluardo monta la guardia / silente, la luna. / Un contrafforte avanza acuto. / Nave fantasma / nell’ombra mite, / fremono come vele / fronde antiche. / Al ciglio di questa valletta, / (o sul lido deserto?) / attendo un ignoto bene, / ma nulla / muta d’intorno / e come un bacio dimenticato / è questa notte”.

Salvatore Quasimodo (1943)

Quando fu arrestato nel 1944 a Milano perché renitente alle leva e per le sue idee antifasciste, Quasimodo fu tradotto nel carcere di Sant’Agata e lì compose la poesia “Dalla Rocca di Bergamo Alta”: “Dalla rocca di Bergamo Alta. / Hai udito il grido del gallo nell’aria / di là dalle murate, oltre le torri / gelide d’una luce che ignoravi, / grido fulmineo di vita, e stormire / di voci / dentro le celle, e il richiamo / d’uccello della ronda avanti l’alba. / E non hai detto parole per te: / eri nel cerchio ormai di breve raggio: / e tacquero l’antilope e l’airone / persi in un soffio di fumo maligno, / talismani d’un mondo appena nato. / E passava la luna di febbraio / aperta sulla terra, / ma a te forma / nella memoria, accesa al suo silenzio. / Anche tu fra i cipressi della Rocca / ora vai senza rumore; e qui l’ira / si quieta al verde dei giovani morti, / e la pietà lontana è quasi gioia”.

Cesare Zavattini (1973)

“A Bergamo era tutta luce, tutto bianco e rosa, grandi ali sulla pianura e le brame invernali davano risalto ai fulgori dei campanili. Da chi mai deriva tanta perfezione positiva, per cui anche una morte, una malattia, finivano per l’iscriversi in un disegno pasquale?”. È il ricordo che di Bergamo conserva Cesare Zavattini, il regista (ma anche scrittore e poeta) protagonista della grande stagione del neorealismo italiano. Zavattini infatti frequentò a Bergamo le scuole elementari e poi il Liceo Sarpi.

Archistar

Nel 1949, Le Corbusier è in città, dove ha organizzato il Congresso Internazionale di Architettura Moderna. La sua impressione è affidata a un celebre schizzo, tracciato su un cartoncino, con gli elementi iconici di Città Alta, accompagnati dalla scritta: “Qui niente macchine. Qui la splendida città senza ruote. Quando entro da un amico lascio il mio ombrello alla porta. I visitatori della vecchia Bergamo possono benissimo lasciare le loro ruote alla porta (Rettifica: da quarant’anni non ho più un ombrello)”.

Una città meravigliosa, sorprendente fino a stordire“, “il più bell’esempio spontaneo di architettura medievale” definì Bergamo il grande architetto Frank Lloyd Wright (1951)

E infine nel 2003, l’archistar Jean Nouvel mentre sta progettando il lungo muro del Kilometro Rosso: “Tutta l’Italia, o quasi, è un capolavoro, ma Bergamo è una delle città più impressionanti. Gli architetti restano sempre attoniti nel vederla. Ha avuto un’epoca di sogno, e c’è stato un tempo in cui ha saputo conquistare una certa visione urbana, si è fatto in modo che tutto collaborasse a un funzionamento corale. La dimensione cittadina italiana è certamente ben esemplificata qui. Non è per fare dei complimenti, ma posso dire che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX le cose hanno funzionato bene dal punto di vista architettonico”.