Non sarà necessario diventare tutti vegani né tornare a vivere nelle caverne (anzi, sarebbe meglio essere moderni e rifare gli infissi di casa). Combattere il cambiamento climatico è una sfida alla nostra portata, con un occhio alle nostre abitudini e l’altro ai rappresentanti che decidiamo di mandare in Parlamento, europeo o meno. Ne abbiamo parlato con Massimo Tavoni, professore ordinario di economia dei cambiamenti climatici presso la School of Management del Politecnico di Milano e direttore dell’Istituto europeo per l’economia e l’ambiente, che sarà ospite di Bergamo Scienza. L’appuntamento è domenica 6 ottobre, dalle 15 alle 16.30 al Centro Congressi Giovanni XXIII, l’incontro ha per tema “Vivere e combattere il cambiamento climatico”.
Il cambiamento climatico è spesso annunciato con toni millenaristici, come una tragedia incombente davanti alla quale siamo inermi. In effetti, c’è qualcosa che possiamo fare?
Non c’è un solo modo per combattere il cambiamento climatico e non dobbiamo essere tutti Greta Thunberg. Ci sono diverse strade intermedie, che riguardano il nostro modo di spostarci, di mangiare, di vivere. Per quanto riguarda la dieta, non c’è bisogno di diventare vegani, ma basterebbe tagliare il consumo di carne rossa bovina e controllare da dove arriva il cibo. Si possono cambiare i vecchi elettrodomestici, infissi, caldaie e prenderli di una classe ambientale di alta efficienza. Sono azioni che hanno un costo iniziale, ma con un beneficio che si ripaga con gli anni.
Lei riesce a vivere a basso impatto di Co2?
Nel mio caso, l’impatto peggiore riguarda i viaggi in aereo. Bisognerebbe scegliere mezzi diversi, ma per questione di tempo non sempre è possibile. Un italiano medio produce 8 milioni di tonnellate di Co2 l’anno, con un viaggio intercontinentale in aereo ne produco già una tonnellata.
Otto milioni di tonnellate di Co2: è tanto, è poco?
È poco rispetto agli americani, che ne producono in media 20 milioni di tonnellate pro capite.
Ma come è possibile che un americano inquini più di del doppio di un italiano?
Hanno una dieta molto basata su prodotti animali, fanno spostamenti maggiori, hanno case più grandi e, ancora adesso, una certa parte dell’energia negli Stati Uniti è prodotta col carbone. In alcuni Paesi del Golfo le emissioni pro capite sono ancora di più. I cinesi ormai anche loro sono quasi a 8 milioni. Noi italiani possiamo provare a ridurre il nostro impatto di Co2, in tanti modi diversi, come dicevo.
Anche con un maggiore impegno politico, no?
Siamo una collettività, quindi abbiamo delle responsabilità come cittadini. Le ultime elezioni europee hanno visto molti parlamentari verdi eletti dai nordeuropei. Noi nemmeno uno.
In Italia non c’è neanche un partito dei verdi di un qualche peso. Secondo lei perché?
Gli italiani non sono interessati all’ambiente, lo si legge in qualunque sondaggio. Fra i Paesi che sono meno preoccupati del cambiamento climatico c’è l’Italia.
Allora provi a farci paura. Quali sono le conseguenze del cambiamento climatico?
Avrà immediate ripercussioni sui flussi migratori dall’Africa. L’Italia è uno dei Paesi più caldi d’Europa e sarà tra i più colpiti, ne risentirà l’agricoltura e le persone più povere ne soffriranno di più. Il global warming avrà un grosso impatto sulle disuguaglianza sociali. Siamo all’inizio di un processo che se diventa irreversibile non si fermerà che in centinaia di migliaia di anni. La ragione per cui non facciamo di più è che è difficile pensare oltre al brevissimo periodo. E poi ci vuole fiducia nella scienza.
Il riscaldamento globale è una certezza scientifica?
Sì, la comunità scientifica è compatta al 99%. Purtroppo in Italia nei dibattiti si invitano uno pro e uno contro e così il pubblico da casa ha la sensazione che le ragioni siano equamente suddivise. Non è così. Il livello del dibattito riflette il livello di istruzione, che è ancora relativamente basso.
A livello di politica locale cosa si può fare?
Una città può lavorare sull’efficienza energetica degli edifici, investire su teleriscaldamento, incentivare il trasporto pubblico. Una politica sana usa sia il bastone, con disincentivi per chi inquina, sia la carota, con gli incentivi.
E a livello più alto?
L’Europa ha le politiche più ambiziose per la riduzione della Co2. All’interno di questo contesto c’è altro che si può fare, ad esempio mettere una tassa sulla Co2. Perché non tassare di più chi inquina e, ad esempio, tassare meno il lavoro? Il governo canadese ha fatto una legge simile sulla produzione di Co2 e con i proventi finanziano le famiglie con una fascia di reddito più bassa. Infine, rimane la questione della politica internazionale. Abbiamo bisogno di cooperazione internazionale, magari punendo le esportazione da parte di Paesi che non abbracciano politiche ambientali.
L’auto elettrica è parte della soluzione del problema?
Sì, tutti gli scenari che facciamo per raggiungere gli obiettivi climatici spesso prevedono un aumento dell’uso dell’elettricità per la mobilità e in altri settori. Certo, dipende anche da come produco l’elettricità, ma sappiamo produrre elettricità a basso impatto di Co2.
I ricchi andranno in Tesla. I poveri invece pagheranno il biglietto?
Bisogna sfatare il mito che occuparsi dell’ambiente sia un affare da ricchi. È ovvio che ci sono lavori legati ai combustibili fossili, ma riguardano una percentuale ridotta della popolazione e, in ogni caso, si creano nuovi lavori nelle rinnovabili o in una agricoltura più sostenibile. Bisogna fare in modo che il costo della conversione green non cada sulle fasce più deboli, ma questo dipende dalle politiche sociali. Ci sono metodi per ridurre la Co2 senza che i poveri paghino il biglietto. Ad esempio tassando le emissioni.