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«Chiese Aperte» in Val Brembana: ritrovare il nostro paesaggio culturale

Articolo. Non chiamatele «chiesine di montagna», «architetture rurali» o «arte popolare»: è in questi luoghi, lontani dalle vie battute dal turismo accelerato, che si è mantenuto vivo il nostro vero paesaggio culturale. Tornare a conoscerlo è il primo passo per comprenderne il loro valore

Lettura 3 min.

Arte, cultura e natura è il tris da non perdere proposto dal progetto «Chiese Aperte», proposto per il secondo anno consecutivo in Valle Brembana dal Polo Culturale «Mercatorum e Priula / Vie di migranti, artisti, dei Tasso e di Arlecchino». L’iniziativa è pensata per accompagnare alla scoperta delle piccole chiese sparse nelle frazioni di Camerata Cornello, Dossena e San Giovanni Bianco, e dei tesori insospettati che custodiscono. Luoghi che sono per la maggior parte dell’anno chiusi e inaccessibili al pubblico, ma che in questa occasione aprono le porte grazie al lavoro di attivissimi volontari.

Si comincia il 3 settembre a San Giovanni Bianco, con l’apertura della Chiesa di San Francesco alla Portiera, della Chiesa di San Giacomo al Grumo e della Chiesa di San Rocco al Bosco. Il 10 settembre l’appuntamento è a Camerata Cornello, con la Chiesa dei santi Cornelio e Cipriano a Cornello dei Tasso e la Chiesa di San Ludovico nel borgo di Bretto. Il 17 settembre saranno aperte le chiese in tutti e tre i Comuni: oltre alle precedenti, anche la Chiesa della SS. Trinità e della SS. Maria Bambina a Dossena. Orario unico di apertura per tutte le iniziative in programma: dalle 14.30 alle 17.30 (a questo link tutti gli appuntamenti).

Cultural Heritage : tutti ne parlano, in pochi lo conoscono

Chiesine, cappelle, oratori: luoghi di preghiera e devozione sorti lungo sentieri montani ma comodamente accessibili a tutti, anche alle famiglie, in posti che ancora oggi nella maggior parte dei casi hanno preservato una rispondenza tra natura e cultura che è impagabile.

È vero, ciascuna delle «Chiese Aperte» in Val Brembana ha la sua specifica storia e memoria. Ma descrivere vicende storiche e patrimonio artistico di ciascuna di esse rischia di essere limitante. Ciò che è interessante è prendere coscienza come facciano parte di un “sistema” che, anche se non istituzionalizzato, può essere letto nell’ottica di un Paesaggio culturale: «Il paesaggio culturale è forgiato da un paesaggio naturale ad opera di un gruppo culturale. La cultura è l’agente, gli elementi naturali sono il mezzo, il paesaggio culturale è il risultato» (Sauer, C. 1925, «The Morphology of Landscape», University of California «Publications in Geography». In sostanza, non si tratta semplicemente di visitare monumenti poco noti, ma di assaporare l’associazione arte/natura, monumento/paesaggio, presente/memoria, lavoro/devozione.

Un’iniziativa come «Chiese Aperte», pur nella semplicità della sua proposta, è dunque un’opportunità per riscoprire che c’è tutto un patrimonio culturale, silenzioso ma tenuto vivo dalle comunità locali, che nel mondo globale è stato messo in ombra da un lato dall’egemonia di una mappa organizzata e istituzionalizzata di luoghi depositari della cultura, che disegnano sul territorio percorsi obbligati (grandi chiese, musei, siti archeologici, importanti architetture); dall’altro lato da quei non luoghi così ben definiti da Marc Augé, spazi che non ci offrono coordinate culturali di riferimento, che non ci ancorano ad alcuna cultura o territorio.

Solo in tempi recenti si stanno riaccendendo i riflettori sui mondi tradizionali, sulle storie subalterne come quelle delle chiesine che punteggiano la Valle Brembana. Luoghi che, mentre il nostro immaginario era dominato dai santuari obbligati della cultura, hanno invece continuato a vivere nutriti dagli stessi valori da cui secoli fa sono nati, grazie a un legame mai interrotto con le comunità locali di riferimento.

Dobbiamo dire grazie a loro, che tra l’altro non hanno quasi mai ricevuto l’aiuto di nessuno, se oggi possiamo ritrovare ecosistemi preservati della nostra identità, della nostra memoria. Per tornare, dopo la perdita di riferimenti geografici e culturali, a rimettere radici nel mondo da cui proveniamo. Come non considerare questo capitale storico, naturale e umano come una eccezionale risorsa?

Arte parlante, oltre gli stereotipi

Le piccole chiese che punteggiano la Valle Brembana sono documenti sorprendenti di una cultura popolare montana, specifica e identitaria, e oggi tutta da riscoprire se vogliamo davvero parlare di rigenerazione della nostra montagna, affrancandola dagli stereotipi che ne appiattiscono la ricchezza.

In questi luoghi tutto è spontaneamente collegato: architetture semplici, spesso realizzate con i materiali del luogo; piccoli spazi accoglienti pensati per le esigenze di piccole comunità ma aperte all’incontro con viandanti e pellegrini; un immaginario artistico popolato di Santi di famiglia. Non è un caso che a dipingere narrazioni alle pareti delle «Chiese aperte» siano stati chiamati artisti come i Baschenis, Jacopino Scipioni o Carlo Ceresa. Sono loro che nei secoli hanno saputo modellare l’immaginario popolare di intere generazioni e di tutto un territorio, con i loro Santi di famiglia, accessibili e con i piedi per terra, e con il pregio di costruire racconti e “Bibbie illustrate” volutamente immediate e dirette, che sapeva parlare come la gente, che si trattasse di ricchi committenti o di più modesti contadini.

Lo ha scritto bene Giovanni Valagussa, occupandosi della dinastia brembana dei frescanti Baschenis: «Il problema principale è quello di studiare queste testimonianze artistiche, spesso poco note e persino dimenticate, senza limitarsi ai parametri della storia dell’arte intesa in senso tradizionale e basata sull’evoluzione stilistica. Da questo punto di vista, costruito essenzialmente sulla cultura dei centri urbani maggiori, la cultura figurativa di famiglie come quella dei Baschenis risulta irrimediabilmente in ritardo rispetto ai fenomeni più avanzati. E dunque rischia di essere respinta ai margini, in una connotazione di cultura popolare intesa nel senso riduttivo di manifestazione folkloristica… Viceversa la chiave di lettura di un fenomeno così vasto nel tempo e nella dislocazione territoriale dev’essere un’altra. Si tratta infatti di guardare questi testi figurativi come esempio straordinario di una cultura popolare, o meglio di una lingua popolare. Ma che soprattutto assolve a un compito fondamentale e poco studiato nel campo delle arti figurative, ma molto più noto agli studiosi della letteratura. Il compito cioè di individuare un linguaggio – figurativo nel nostro caso – in grado di trasmettere contenuti complessi in forme semplici, ossia in grado di essere comprensibili ad un numero più ampio di persone, senza rinunciare ai propri contenuti, ma adottando immagini – letterarie o figurative – efficaci e facilmente memorizzabili. Facendo dunque cultura popolare in forma alta, e non folklore appunto. Facendo una comunicazione larga e diretta, senza essere degradata e degradante, in un modo degno dal quale anche oggi avremmo molto da imparare».

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