93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

C’è un po’ di Bergamo in San Pietro: Attilio Nani, Giacomo Manzù e gli studi di Valentina Raimondo

Intervista. Un’intervista alla Storica dell’Arte Valentina Raimondo: appassionata di tecniche scultoree, studiosa di archivi con un ineluttabile desiderio di poter ancora raccontare storie inedite. Bergamasca d’adozione, ha reso la nostra città il fulcro della sua ricerca, sentendosi a casa tra le opere e gli scritti degli artisti locali.

Lettura 6 min.
Giacomo Manzù

Giacomo Manzù è a tutti gli effetti lo scultore di cui Bergamo è più fiera, tanto da rendere il territorio cittadino un museo a cielo aperto di alcune sue opere, divenute iconiche nell’immaginario collettivo; «Il cardinale» nel Chiostro di Santa Maria, il «Caravaggio» nel cortile del Palazzo della Provincia o «Gli amanti» davanti all’ingresso della GAMeC accompagnano la quotidianità, scandiscono i passi dei bergamaschi, che trovano nelle sculture tratti tipici dell’indole orobica: una grande sensibilità dietro a un apparente guscio ruvido e protettivo. C’è poi quella volontà di narrazione, a volte denuncia a volte esaltazione, che coinvolge epoche diverse nel flusso di una storia comune.

Quando si pensa che un artista sia stato ufficialmente consacrato dalla storia dell’arte, diventa difficile pensare di poter raccontare qualcosa di nuovo; eppure, ho avuto la fortuna di intervistare Valentina Raimondo che, con una voce calda ed entusiasta, mi ha contagiata con la sua appassionante ricerca: una travolgente dedizione per gli archivi che consegna ai bergamaschi un nuovo tassello della loro storia.

CDM: In che modo la tua storia si è intrecciata con quella di Bergamo?

VR: Sono originaria di Messina, dove mi sono laureata in Lettere, per poi trasferirmi a Milano e iscrivermi alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte in Cattolica e conseguire il Dottorato di ricerca all’Università Statale. Qui ho conosciuto mio marito – bergamasco – con il quale mi sono avvicinata alla città. Da quel momento ho imparato a sentirmi a casa, a chiamarla casa. Devo dire che ho ricevuto una bellissima accoglienza, anche in termine di possibilità in cui spendermi a livello lavorativo.

CDM: Qual è stata la prima scintilla?

VR: Sono sempre stata appassionata di scultura, oggetto delle mie tesi; lo studio e la ricerca generano in me un rapporto totalizzante con gli artisti di cui inseguo e indago la storia. Sono dell’idea che un argomento ti deve chiamare: se non lo senti ‘tuo’, difficilmente riuscirai a vedere oltre quello che leggi. Così è stato, per esempio, quando ho fatto domanda a Bergamo per la borsa di studio Luigi e Sandro Angelini per inventariare il fondo Attilio Nani; non avevo una formazione da archivista: mi hanno seguita e aiutata e, da questo, sono nate le prime competenze da mettere a servizio della città.

CDM: Nel 2017, infatti, hai curato insieme a Maria Cristina Rodeschini la mostra “Attilio Nani. La scultura disegnata” per GAMeC all’Ex Ateneo di Scienze, Lettere e Arti.

VR: Attilio Nani era un ottimo artigiano, abile nell’arte dello sbalzo e del cesello, che impara sin da bambino, quando aiutava il padre Abramo nella bottega di famiglia a Clusone. Tuttavia, non è possibile distinguere in lui l’anima dell’artigiano da quella dello scultore, compenetrate entrambe nel tentativo di esprimere una forza interiore.
Nel 1927 si trasferisce a Bergamo in via Torretta 10: il suo studio diventerà presto uno dei luoghi di ritrovo per artisti e intellettuali bergamaschi, catalizzando attorno a sé l’attenzione di alcune delle figure più in vista del contesto culturale cittadino.

CDM: Tra queste, spicca proprio la presenza di Giacomo Manzù …

VR: Quando i due si conoscono, Nani era già un affermato artigiano, mentre Manzù era agli inizi della sua formazione. Il giovane Giacomo era affascinato dalla possibilità di scolpire il metallo attraverso l’uso di strumenti che ne incidono e ne plasmano delicatamente la superficie, come a tracciare un disegno; così si accosta alla bottega di Nani per imparare la sua arte. Ne nasce un rapporto di estrema fiducia, caratterizzato dalle medesime ansie espressive e da alcune importanti collaborazioni; un esempio sono alcune opere inedite progettate da Manzù per l’Università di Padova, poi affidate all’esecuzione di Nani grazie alle sue abilità come sbalzatore e cesellatore.

CDM: È grazie a questo incontro tra scultori bergamaschi del Novecento che si è, di conseguenza, intensificato anche il tuo rapporto con Manzù?

VR: Proprio mentre stavamo preparando la mostra su Nani, è arrivata la richiesta da parte del MUST di Vimercate per una monografica su Manzù; da qui è iniziato uno studio molto più specifico. Conoscevo Manzù, ma, quando si iniziano a studiare i documenti, ti sembra di vederlo, entri nel suo mondo; per me era un mostro sacro: avevo da tempo il sogno di occuparmene, ma si ha un certo timore reverenziale nei confronti di alcuni artisti. Ho avuto la possibilità di avvicinarmi ai suoi temi prediletti: il sacro, il rapporto con la famiglia, la donna; in museo, nel frattempo, si respirava una bellissima aria di collaborazione: è stata una grande occasione, un punto di svolta.

CDM: E anche di non-ritorno! Ora, infatti, sei anche assegnista di ricerca a Bergamo …

VR: Il rapporto con Manzù in effetti è rimasto e si è intensificato; nel 2021 l’Università di Bergamo mi ha assegnato un contratto di ricerca, un sogno che nutrivo dal dottorato. Penso che questa sia una grande fortuna, di cui sono estremamente grata: non è scontato rendere la ricerca il pane per la propria vita e l’Università ha dimostrato di credere in questa progettualità e nelle mie potenzialità.
C’è chi riesce a perseguire una carriera accademica lineare, senza interruzioni. Io, invece, ho sempre lavorato da freelance, moltiplicando i lavori e le possibilità; ora posso dedicarmi solo alla ricerca, ma è frutto di una gavetta lunga: ho lavorato in museo a contatto diretto con le opere d’arte, studiato negli archivi della C.E.I e del Vittoriale, collaborato con il Museo delle Storie per «Bergamo 900», possibilità di entrare ancora più a contatto con la storia della nostra città.
Il lavoro negli archivi può sembrare noiosissimo, ma è proprio attraverso i documenti che si entra in punta di piedi nei pensieri degli artisti. Ci si sente delle mosche capaci di respirare l’aria di anni che non ci sono più. Ti ritrovi a vivere quello che studi, diventa totalizzante. Scopri nuove potenzialità di Bergamo, continui a farne il tifo.

CDM: È bello quando un archivista riesce a portare alla luce nuove storie, condividendo il frutto della propria ricerca, avvicinando le persone. Diventa davvero cultura. Di cosa ti occupi nello specifico come ricercatrice per l’Università di Bergamo?

VR: Studio e indago la scelta dei materiali adoperati da Manzù nelle sue opere: un approccio tanto specifico quanto affascinante e ricco di sorprese. Manzù era un artista davvero attento ai dettagli e consapevole del potenziale tecnico dei materiali utilizzati.

CDM: Qual è il caso più curioso in cui ti sei imbattuta finora?

VR: Sicuramente gli studi per la porta di San Pietro in Vaticano, a cui inizia a lavorare nel ’52 dopo aver partecipato a due concorsi, nel ’47 e nel ’49. Leggendo i documenti d’archivio sulla Fabbrica di San Pietro, ho scoperto che Manzù sperimentò diverse tipologie di leghe, studiando la composizione del bronzo con differenti quantità di piombo. È proprio Cesare Brandi, nel 1964, a definire la scelta di Manzù «una lega sperimentale»: sono partita da qui. Ammetto di aver chiesto un aiuto tecnico-scientifico ai colleghi ingegneri della sede universitaria di Dalmine: al di là dell’aspetto poetico, volevo capire con quale precisa idea Manzù si dirigeva in fonderia per fare le prove. È sorprendente la ricerca di perfezione che accompagna il suo lavoro, pur considerando che – per quanto fosse uno scultore già affermato – stava avendo a che fare con la Chiesa più importante del mondo.

CDM: La particolare composizione della lega poteva avere qualche effetto specifico anche sul soggetto da rappresentare?

VR: Certo, la sua era una ricerca mirata a ottenere una particolare fluidità, dalla quale dipendeva direttamente la resa dei particolari e dei dettagli; per lui diveniva quasi un’esigenza stilistica ed espressiva. Non era un’indagine rivolta solo ai pannelli figurativi, ma anche per la struttura architettonica. Manzù non mancava a nessuna riunione e scelse da sé le fonderie, con le quali aveva un rapporto di fiducia dettato da competenze esplicite.
Il soggetto richiesto era il «Trionfo dei Santi e dei Martiri della Chiesa», ma è risaputa la faticosa gestazione dell’artista bergamasco nel rendere questo tema, oltre ai difficili rapporti con la commissione vaticana.

CDM: A questo si collega anche il suo particolare rapporto con Papa Giovanni XXIII …

VR: Sebbene non si possa propriamente parlare di amicizia tra le due personalità, la porta venne ultimata nel 1964 e si crede che l’incontro con il Papa bergamasco sia stato fondamentale per superare la situazione di impasse che si era venuta a creare, variando il tema ne «La porta della morte». Così venne descritto il primo incontro del 6 settembre 1956 da Loris Francesco Capovilla, segretario del papa: «Entrambi bergamaschi, figli della campagna, educati al culto delle cose belle, distaccati dal denaro, genuini e spontanei, innamorati della terra natale, erano fatti apposta per incontrarsi. Si conobbero troppo tardi, nel 1956, quando l’uno, cardinale e patriarca, contava 75 anni, l’altro 48».
A questo ne seguirono altri, dal 1960 in poi, quando a Manzù fu chiesto di realizzare il ritratto in bronzo del Pontefice.

CDM: Dalle tue letture, che idea pensi avesse Manzù di Bergamo?

VR: Aveva un forte legame con la città, affidava a Bergamo la realizzazione di tutte le sue opere: quelle in lamina di rame alla bottega di Nani, quelle in legno alla bottega Gritti. Era molto legato ai luoghi della sua formazione: riteneva fondamentale la conoscenza del mestiere di artigiano, prima ancora di diventare scultore. Non era poi nel suo stile dichiarare in maniera eclatante un legame, ma in Bergamo vedeva sicuramente uno specchio di sé stesso.

CDM: Quali pensi possano essere ora gli sviluppi della tua ricerca?

VR: Per quanto possa sembrare un lavoro statico, io lo trovo estremamente avventuroso; la storia di Bergamo è talmente ricca e stratificata che possono verificarsi incredibili risvolti. Ora mi occupo dello studio del fondo «Ada e Mario De Micheli» (arrivato in Università di Bergamo nel 2021) e della storia dell’Università stessa, nata nel ’68. L’importante è restare umili e non smettere di avere un contatto con la realtà. Ci sono cose che mi sono state donate e non voglio dimenticarlo: un buon modo è sicuramente quello di non allontanarmi dalla società in cui vivo.

CDM: Grazie, è bello percepire dalle tue parole come la ricerca sia un privilegio che deve necessariamente trasformarsi in responsabilità di condivisione.

Approfondimenti