La «Carrara revolution» è totale, sia all’interno che – come respireremo dalla prossima estate – anche all’esterno, quando apriranno i 3000 metri quadrati de I giardini di PwC (con bistrot, che non guasta).
Ma il diaframma che separa interno ed esterno è già svanito perché oggi, entrando in museo, siamo catapultati, quasi a perdere l’ancoraggio della forza di gravità, nella visionaria, vertiginosa – ma anche estremamente divertente – installazione «Conversazioni sacre» del duo californiano Fallen Fruit. Una pioggia invadente di fiori, frutti, colori, dettagli rubati ai dipinti della Pinacoteca e ai luoghi della città, che riesce non solo a risolvere dal punto di vista formale il “non luogo” della scala di accesso al museo (e persino l’ascensore), ma anche a togliere al visitatore ogni eventuale residuo di timore reverenziale nel varcare la soglia di un “tempio” dell’arte.
E poi, eccolo il nuovo allestimento, firmato dall’architetto Antonio Ravalli. Chi immaginava una svolta pop o cromaticamente provocatoria magari rimarrà deluso, ma niente paga di più di una semplicità – che significa anche chiarezza – raffinata, capace di assecondare e amplificare la risonanza della voce dei protagonisti, che sono e devono restare i dipinti, senza mai prevaricarli. Due i percorsi cromatici, blu e rosso, in un climax di aurora progressiva: dal notturno in cui si incastona il dipinto di Foppa al celeste che fa da controcanto al «Ricordo di un dolore» di Pellizza da Volpedo, dal rosso violaceo per Raffaello alle terre chiare delle ultime sale.
Estremo “nitore”, dunque, insieme a didascalie ben leggibili, ora rendono – quello all’interno di cinque secoli di storia dell’arte – un viaggio lineare, “naturale”, in cui è davvero difficile rischiare di perdere la bussola. Ma nuovo allestimento, ricordiamocelo, significa contenuto prima ancora che contenitore. E la dimensione quantitativa del passaggio dalle circa 600 opere esposte nel “vecchio” percorso alla selezione di poco più di 300 che trova posta in quello nuovo ci dà la misura del lavoro compiuto dalla commissione scientifica, composta da Keith Christiansen, Francesco Frangi, Fernando Mazzocca, Mattia Vinco, Luca Rinaldi, Angelo Loda, Giulia Zaccariotto, Paolo Plebani, Giovanni Valagussa, con il coordinamento del direttore Maria Cristina Rodeschini. Ma era più che mai necessario: la selezione è l’ingrato ma cruciale fattore che sta alla base dell’identità e della fruibilità di un museo, oltre che della sua funzionalità e sostenibilità.
In un itinerario che inizia idealmente da Pisanello e si conclude con Pellizza da Volpedo, ora ogni opera si prende lo spazio necessario ad esplodere la sua “potenza”, e concede al visitatore lo spazio per riceverla appieno. Un caso su tutti, proprio quello del piccolo ritratto di Pisanello che, ora che è “gioiello” che galleggia solitario su una parete tutta dedicata, sembra ingigantirsi nella sua forza e bellezza.
Non meno preziose e dense di rimandi sono le nuove “incursioni” in quadreria di manufatti di natura differente ma che rivelano dialoghi sorprendenti, come le medaglie e placchette della donazione Scaglia e le sculture della donazione Zeri. Sono le prime note impressioniste su un museo che andrà visto e rivisto perché ci appare, finalmente, del tutto nuovo. Tanto che molti, tra i primi visitatori, si sono ritrovati a chiedere davanti a capolavori stranoti: «Ma quest’opera prima c’era?».
Cecco del Caravaggio. Chi è costui?
La domanda serpeggia in città da quando Accademia Carrara ha annunciato la prima mostra mai dedicata a questo artista praticamente sconosciuto. Se non fosse che, proprio nei mesi scorsi, nel film di Michele Placido «L’ombra di Caravaggio», accanto a Caravaggio-Scamarcio abbiamo ritrovato anche la figura del suo allievo, modello e compagno Cecco, interpretato dal giovane rapper Tedua.
Una domanda lecita, in ogni caso, quella del pubblico, per un artista di cui le fonti non parlano nemmeno per darci le coordinate certe di nascita e di morte, quasi che su di lui fosse calata una sorta di damnatio memoriae. Fino al 1990 era ignoto persino il suo vero nome, Francesco Boneri, che oggi ci consente di ricondurne le origini al territorio bergamasco. Ma quando i documenti non parlano, si sa, sono le opere a raccontarci direttamente qualcosa. Quelle opere che Gianni Papi, curatore insieme a Maria Cristina Rodeschini della mostra «Cecco del Caravaggio. L’allievo modello», in trent’anni di ricerca è riuscito pazientemente a ricondurre alla mano di questo artista, consentendo finalmente di tracciarne un profilo.
Dei circa venticinque dipinti oggi noti di Cecco, la mostra riesce nell’impresa di riunirne diciannove, provenienti da collezioni pubbliche e private nazionali e internazionali (tra di esse due opere, la «Decollazione del Battista» e «S. Francesco adorante», dalla bergamasca collezione Pesenti), oltre che di creare un punto di illuminante confronto con l’ingombrante figura del maestro, grazie alla presenza di due degli almeno sei dipinti in cui Cecco posa per Caravaggio: il «San Giovanni Battista» della Pinacoteca Capitolina e, a dargli il cambio in mostra tra un paio di mesi, il «David con la testa di Golia» della Galleria Borghese.
Sgombriamo subito il campo dai temi più “chiacchierati”. Sì, Cecco era l’amante di Caravaggio, «his boy» come lo definisce un viaggiatore inglese a metà del Seicento. E sì, siamo stati in molti in questi mesi a pensare che, forse, puntare su un autore che nessuno conosce non fosse la scelta giusta per l’anno che ci vede Capitale della Cultura insieme a Brescia.
In realtà, «L’allievo modello» è una rivelazione e ci fa pensare che in realtà questa mostra sarà unica nel suo genere nel pur fitto tourbillon espositivo del 2023: per molti aspetti inevitabilmente indiziaria, ma costruita in modo ineccepibile, capace di strappare dall’ombra un artista inaspettato, irregolare, audace. Il quale, pur saldamente ancorato a due radici – quella più ovvia del naturalismo di Caravaggio e quella meno scontata della lucida visione del bresciano Savoldo – ha elaborato un linguaggio personalissimo, iperrealista nella forma e anticonformista nell’iconografia. In una parola libero, spregiudicatamente, pur nella consapevolezza di essere tutt’altro che allineato con il clima sociale del suo tempo.
È intrigante la pittura di Cecco, che opera dopo opera, sia pure in una percepibile discontinuità qualitativa, ci cattura con rebus sofisticati che proprio non riusciamo a decifrare, con un’eleganza ricercata dei costumi che ammalia, ci conturba con le sue enigmatiche nature morte musicali. È un linguaggio disturbante, quello di Cecco, perché fuori dagli schemi, prima ancora che per la sua avvertibile ambiguità.
Forse il buio che la storia ha calato su Cecco e insieme il successo di cui sappiamo aver goduto in vita si spiegano, anche, con il carattere colto e complesso della sua pittura, probabilmente apprezzata, come annota Papi, da «collezionisti, forse legati fra loro da scelte privatamente non in linea con l’ortodossia sociale, che si rivolgevano a Cecco e alle sue capacità intellettuali per dare sostanza artistica alle sciarade dei significati segreti che solo in pochi, con intima soddisfazione, sapevano decifrare».
Info
Qualche informazione infine. L’Accademia Carrara con il nuovo allestimento e la mostra «Cecco del Caravaggio. L’allievo modello» aprono oggi, 28 gennaio, per una due giorni di festa con ingresso a 5 € anziché 15 €. Per questo primo fine settimana, l’apertura sarà dalle 9.30 alle 23. La mostra su Cecco del Caravaggio rimarrà aperta sino al 4 giugno.
Foto adicorbetta tranne dove diversamente indicato.