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#bestof2024: Marina Abramović, una mostra per ritrovare l’Arte di morire

Articolo. Fino al 16 febbraio al Gres art 671 sarà possibile ammirare la mostra «Between breath and fire» della grande artista del nostro tempo, curata da Karol Winiarczyk. Da una recente installazione cinematografica «Seven Deaths», l’itinerario espositivo si trasforma in una retrospettiva che ben restituisce tutta l’ossessione di Abramović per la morte

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Marina Abramović, Seven Deaths 2021_ Foto dell’installazione del film (© Marina Abramović)

Irrompe a Bergamo il memento mori di Marina Abramović (Belgrado, 1946), ed è subito chiaro, anche agli scettici che guardano all’arte contemporanea come a un’indistinta nebulosa, che un artista vero lo si riconosce immediatamente. È, infatti, una lezione da non perdere la mostra «Between breath and fire», curata da Karol Winiarczyk e allestita fino al 16 febbraio in quel luogo sospeso nel tempo che è il complesso ex industriale dell’ex-Gres di via S. Bernardino 141, riqualificato dal Gruppo Italmobiliare con Fondazione Pesenti e ribattezzato «Gres art 671», nuovo polo cittadino di produzione culturale che apre definitivamente i battenti con una vera, grande artista del nostro tempo.

Prendendo il via dalla recente installazione cinematografica «Seven Deaths» – in cui l’artista rivive sette celebri morti dell’opera lirica contrappuntata da altrettanti assoli di Maria Callas – l’itinerario espositivo si trasforma in una vera e propria retrospettiva, che attraverso lavori storici e recenti, molti dei quali senza dubbio iconici, ben restituisce tutta la parabola della coraggiosa, faticosa, magnifica ossessione di Abramović per la morte.

Quattro sezioni – «Breath – Il respiro», «Body – Il corpo», «The Other – L’Altro» e «Death – La morte» – mettono a fuoco i temi indagati dall’artista per tutta la vita, sfidando continuamente, con il corpo e con la mente, il confine davvero sottile che separa la vita dalla morte, dal dolore, dall’imprevedibile, dalla violenza. Con il pubblico sempre chiamato in causa, il più delle volte anche ad intervenire. Lo scopo? Dare consistenza reale al concetto di resilienza (ormai svilito nella sua potenza primordiale dalla serialità con cui oggi lo svendiamo in mille, incongrui contesti) e documentare la profonda connessione tra sofferenza fisica e trascendenza spirituale. Così, in mostra, vediamo Marina Abramović urlare senza sosta fino al punto di perdere la voce, fustigarsi la schiena fino a tremare di dolore, incidersi un pentagramma sul ventre, tenere imperturbata il dito annerito sopra la fiamma di una candela, resistere quattro minuti e dieci secondi con una freccia puntata dritta al suo cuore e tenuta in tensione dal solo peso dell’artista e del compagno Ulay.

Sono in molti a chiedersi che senso ha tutto questo. Una delle tante risposte possibili è che Marina Abramović combatte in prima linea per smantellare la nostra congiura del silenzio sulla morte, smascherando quel rifiuto del limite che è il punto debole della nostra cultura che delira di onnipotenza, per liberare di nuovo le domande cruciali che la morte, così come la sofferenza, pongono alla vita. Ci urtano e ci terrorizzano le prove dell’artista, perché segnano il brusco ritorno di quell’Ars moriendi che ci siamo tanto adoperati a rimuovere ma che, invece, nei secoli passati faceva parte della nostra natura rendendoci capaci di rispettare ed accogliere la morte come l’estremo atto della vita.

«Ognia omo more e questo mondo lassa»: che distanza separa, in fondo, la composta processione di scheletri e viventi che sfila nell’affresco della Danza Macabra di Clusone e il danzare della Abramović con lo scheletro o con la sua ombra? E il suo «Jump» in picchiata dall’alto non ricorda forse quello dell’angelo che piomba dal cielo per portare al martire San Giovanni Vescovo la palma del martirio nella pala di Tiepolo del Duomo di Bergamo?

Il paesaggio spazzato da vento e tempesta che fa da cassa di risonanza alla sofferenza del Cristo crocifisso dipinto da Moroni ad Albino, facendo sbattere le fasce del perizoma, non ci parla forse di un legame inscindibile tra uomo e natura proprio come il corpo di Abramović in balia delle onde sulla spiaggia di Stromboli?

Il «Ricordo di un dolore» che riempie lo sguardo solo apparentemente perso nel vuoto di Santina Negri nel capolavoro di Pellizza da Volpedo (Accademia Carrara) non è forse lo stesso che trasfigura il viso di Abramović mentre i serpenti le stritolano il collo?

Infine, l’immagine iconica dell’artista vestita di rosso che, con la zavorra delle sue scarpe magnetiche, danza il suo sgangherato mambo nel manicomio di Volterra non evoca le farfalline antropomorfe che il nostro Tarcisio Merati dipingeva in ospedale psichiatrico?

Se è vero, come qualcuno continua a ripetere, che «tutta l’arte è contemporanea» , perché spaventarci di fronte alla ricerca di Marina Abramović? Tra passato e presente, l’arte è capace di insegnare l’Ars moriendi, naturalmente a chi è disposto ad accettare che così è la vita.

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