Era etichettata come un capolavoro ormai irreversibilmente perduto l’opera che l’artista realizzò nel 1522-23 per la Confraternita intitolata al Corpo di Cristo e San Giuseppe. Lorenzo Lotto era un genio inquieto, anticlassicista, e forse per questo largamente apprezzato dalla committenza aristocratica più esigente e aggiornata della città.
Grazie al restauro voluto fortemente da Fondazione Credito Bergamasco e affidato alle grandi competenze di Antonio Zaccaria, ora Lorenzo Lotto torna a dialogare con i fedeli. Li costringe ad avvicinarsi, a non rimanere indifferenti di fronte ai tanti dettagli emersi e imprescindibili, a lasciarsi incantare nonostante la drammaticità della narrazione. Restaurare, in fondo, è come essere i primi depositari di un segreto. Una volta che viene riscritta la storia di un’opera, può iniziare anche la narrazione del rapporto tra questa e i suoi fedeli, riconquistando quel valore storico e umano che da troppo tempo si era bruscamente interrotto.
Abbiamo voluto metterci in ascolto del restauratore dell’opera, Antonio Zaccaria. Con voce fermissima e preparata ci ha portati nel cuore dell’operazione che ha restituito a Bergamo un grande dono.
Il senso di restaurare
CDM: Cosa vuol dire per lei restaurare?
AZ: Fino a una trentina di anni fa, il restauratore nell’immaginario collettivo era spesso considerato una sorta di stregone, chiuso nella sua bottega, alle prese con pozioni e ricette segrete. Personalmente, mi sento in linea con l’evoluzione metodologica e deontologica che ha cominciato a prendere slancio una ventina di anni fa. Oggi più che mai si deve iniziare con una base scolastica, non è più una pratica che si tramanda in bottega come spesso accadeva in passato, quando le scuole di formazione erano poco accessibili, affiancando una buona esperienza sul campo. L’evoluzione del restauro si è manifestata anche nello studio chimico e fisico, oltre che nelle tecniche per le analisi diagnostiche preliminari. Oggi, poi, al restauratore serve anche una forte cultura generale: storia dell’arte, fisica, chimica, ma anche le metodologie appartenenti alla cultura del restauro non solo italiana, ma internazionale. La conservazione va vista come una disciplina non molto diversa dalla medicina: c’è la fase di indagine per arrivare a una diagnosi, la valutazione della migliore strategia di cura e infine il momento operativo, specifico per ogni problematica.
CDM: Il restauro viene comunemente visto come un «restituire al presente la bellezza che fu».
AZ: È sbagliato parlare di «ritorno all’antico splendore» perché inevitabilmente, per sua natura, la materia invecchia. L’opera deve essere vista come un sistema, costituito da diversi materiali, ciascuno dei quali invecchia singolarmente e allo stesso tempo si assesta per trovare una forma di convivenza con gli altri elementi. Un equilibrio che non sempre nel tempo si riesce a conquistare, generando a volte criticità di degrado che il restauro potrà solo alleviare ma non cancellare. Intendo dire, in sostanza, che dobbiamo partire dal presupposto che qualsiasi opera di arte antica osserviamo oggi non può, per natura, avere l’aspetto che aveva nel momento in cui l’artista l’ha congedata.
CDM: Immagino che per ogni opera che le si presenta davanti sia chiesto di intervenire con tecniche differenti.
AZ: È determinante valutare e decidere caso per caso. Non ci sono protocolli standardizzati. Anche se purtroppo ancora oggi, in particolare nel restauro dei dipinti su tela, alcune operazioni molto invasive continuano ad essere considerate “canoniche”, benché esistano alternative moderne ed efficaci.
Restaurare il Lotto
CDM: Perché la «Deposizione di Cristo dalla Croce» è proprio un «restauro impossibile»? In un suo precedente intervento l’ha dichiarata «scientificamente sfidante».
AZ: La «Deposizione» è verosimilmente l’unica tempera su tela eseguita da Lotto. Da circa 25 anni, il dipinto era considerato intoccabile dato il suo fragile stato di conservazione. Si presentava fortemente contaminato da materiali aggiunti in una serie di passati restauri, alcuni dei quali sono intervenuti su questa delicatissima tempera con materiali e operazioni normalmente utilizzati per la più robusta pittura ad olio. La materia pittorica, inoltre, giunge a noi notevolmente assottigliata. Per questo, l’intervento attuale è stato un atto di coraggio, con la sinergia tra Fondazione Credito Bergamasco con il suo presidente Angelo Piazzoli, il parroco di S. Alessandro in Colonna Mons. Gianni Carzaniga, e lo storico dell’arte della Soprintendenza Angelo Loda.
CDM: Quali sono stati i precedenti interventi di restauro sulla «Deposizione»?
AZ: Il dipinto ha subito una serie di interventi, il primo dei quali a soli 24 anni dalla sua esecuzione. Ma tre sono stati i principali. Nel 1869 un importante restauro ad opera di Antonio Zanchi, allievo di Giovanni Secco Suardo, il conte bergamasco che scrisse «Il Restauratore di dipinti», manuale utilizzato fino agli anni Sessanta del secolo scorso come una sorta di ricettario del mestiere. In realtà, ancora oggi da qualcuno non è stato del tutto abbandonato… Ma, tornando alla similitudine sanitaria, è come se un medico operasse oggi seguendo i dettami di un manuale dell’Ottocento. La presenza a Bergamo di una forte tradizione del restauro è certamente motivo di orgoglio, ma al contempo ha in qualche modo rallentato l’aggiornamento e il confronto con la sperimentazione internazionale.
CDM: E gli altri interventi?
AZ: Nel 1953 e poi nuovamente nel 1962-63, il restauratore bergamasco Mauro Pellicioli operò sul dipinto interventi piuttosto radicali, sia nella pulitura che nella scelta di utilizzare gomma lacca – resina animale comunemente impiegata per la lucidatura dei mobili antichi - nel tentativo di vivificare le cromie della tempera con una sorta di “effetto bagnato”. Ma la tempera su tela ha per sua natura una caratteristica opacità, con stesure poco materiche rispetto alla pittura ad olio. Ed era esattamente l’aspetto ricercato da Lotto per la sua «Deposizione», con la precisa scelta di questa tecnica, lontana dai toni squillanti della pittura ad olio di cui pure era maestro.
CDM: Per il restauro della «Deposizione» che tecniche ha utilizzato?
AZ: Essendo escluso intervenire con materiali e metodologie di pulitura “canonici”, l’idea è stata quella di testare l’efficacia dell’Agar Agar, gel ricavato dalla lavorazione delle alghe rosse, già ampiamente sperimentato su manufatti in gesso, materiale lapideo e dipinti murali, ma ancora poco utilizzato per i dipinti su tela. Fondamentale è stata la sinergia con i colleghi di Milano, Marilena Anzani e Alfiero Rabbolini, oltre che con la mia storica collaboratrice, Barbara Vitali. Siamo stati autorizzati ad eseguire dei test in loco, nella sacrestia della Basilica di Sant’Alessandro in Colonna, e il gel di Agar Agar si è rivelato efficace nel rimuovere dalla superficie i vecchi protettivi e i materiali estranei, con il vantaggio di essere non contaminante e totalmente reversibile. Dati gli esiti positivi, Angelo Loda della Soprintendenza di Brescia ha quindi autorizzato a procedere con il completo restauro dell’opera in laboratorio.
CDM: Mi descrive i vari passaggi?
AZ: La pellicola pittorica ha una sua morfologia, fatta di asperità e avvallamenti. La canonica metodologia di pulitura, tramite lo sfregamento di un tamponcino imbevuto di solvente o miscele di solventi, avrebbe insistito sulle cuspidi senza riuscire a raggiungere i micro-interstizi profondi. Il gel di Agar, invece, agisce per inglobamento, insinuandosi anche in profondità per catturare i depositi incoerenti. Non richiede risciacquo, a differenza di molti gel canonici, e non ha potere adesivo, potendo quindi essere eliminato senza esercitare alcuna trazione sulla pellicola pittorica. Abbiamo quindi realizzato mascherine a base di Agar Agar, perfettamente corrispondenti alle porzioni del dipinto su cui ci accingevamo di volta in volta ad intervenire. Nel momento della sovrapposizione la mascherina, a volte addizionata con soluzioni precedentemente testate, è completamente trasparente, poi l’Agar agisce e a seconda della quantità di materiali incoerenti assorbita, il suo colore vira verso il bruno, più o meno scuro. Ad azione conclusa, la mascherina viene semplicemente sollevata e rimossa. A pulitura ultimata, sono riemersi dettagli della composizione che risultavano quasi illeggibili così come l’accensione di alcune cromie, come i bianchi e i rossi. Ma soprattutto, l’intervento ha nei limiti del possibile restituito alla «Deposizione» la caratteristica opacità della tempera, precisa scelta di Lotto.
CDM: E dopo la pulitura?
AZ: Avendo a che fare con una materia pittorica già tormentata, abrasa, assottigliata, abbiamo proceduto con l’integrazione pittorica optando per i pastelli extrafini acquerellabili, per realizzare abbassamenti di tono nelle lacune di materia pittorica, ripristinando la continuità con la policromia circostante e con il disegno. In sostanza, osservando da vicino la tela, si riescono tuttora ad individuare le lacune presenti prima dell’intervento, ma la loro interferenza è stata attutita.
CDM: Che significato ha il fatto che la «Deposizione», che dal 1869 era custodita nel chiuso della sacrestia, dopo il restauro abbia fatto ritorno nella cappella del «Corpus Domini»?
AZ: Il ritorno nella collocazione originaria riconnette il dipinto con tutta una serie di valori tecnici, storici, artistici e devozionali. Le reazioni dei visitatori sono interessanti. In prima battuta, c’è il disorientamento: vengono in cerca del Lotto dei colori sfavillanti delle grandi pale e incontrano un’opera che l’artista stesso ha voluto fosse del tutto differente. Poi cominciano ad entrare nella complessa narrazione della «Deposizione» e dei suoi dettagli, si lasciano coinvolgere dal suo pathos intenso e dalla meditazione. Alla fine riconoscono, in quest’opera pure così sofferta, quel genio di Lotto che hanno imparato ad amare senza riserve.