“La geografia dei luoghi è un’immagine elastica che si allunga e si stringe in base al nostro umore e alla nostra capacità di collegare storie anche molto diverse e lontane nel tempo, come i punti luminosi di una costellazione. Narrare per immagini è, soprattutto, un modo per immaginare un altro mondo possibile.” (Antonio Rovaldi)
Era soltanto febbraio quando dalle pagine di Eppen vi abbiamo raccontato della mostra (e del libro) “Il suono del becco del picchio” di Antonio Rovaldi, proposta da GAMeC nell’Ala Vitali di Accademia Carrara. L’obiettivo fotografico dell’artista ci ha accompagnato in una lunga camminata fotografica ai margini, in esplorazione dei lunghi nastri del waterfront che segnano la fine di New York e l’inizio dell’Oceano, dove l’uomo lascia campo libero alla natura.
È un’idea tanto geniale quanto semplice quella dell’artista nato a Parma: andare oltre la certezza contemporanea che tutto debba accadere al centro, per leggere il domani di una città indagandone i margini. I margini sono una grande risorsa perché sono ai confini con tutto ciò che accade, ed è qui che abita ancora ciò che al centro è andato perduto.
Poi, a causa del lockdown, la mostra aveva chiuso i battenti. Ora che i nostri musei hanno riaperto le porte, tornare a visitare la mostra di Rovaldi fa uno strano effetto, quasi quello di scoprire una premonizione si è inaspettatamente avverata.
Le settimane chiusi in casa, i silenzi delle nostre città deserte, l’incursione nelle città svuotate dall’uomo di cinghiali, fenicotteri e caprioli, i cieli che si sono fatti più tersi, le acque dei nostri fiumi più limpide, ci hanno mostrato una natura che – mentre noi ci siamo ritirati nell’ambiente domestico – non ha perso tempo per riprendersi i suoi spazi. Per qualche tempo siamo tornati a interrogarci sul nostro destino e su quello del pianeta. Durerà? Di questo abbiamo chiacchierato con l’artista.
BM: Due anni e mezzo per raccontare spazi vuoti dentro e intorno alla città, spazi indefiniti che aiutano a prefigurare il domani dei luoghi e del rapporto tra uomo e natura. E poi ti ritrovi in un mondo che oggi è incredibilmente vicino a ciò che avevi immaginato. Che effetto fa?
AR: Drammaticamente lungimirante. Sono partito per la prima presentazione americana del libro verso una New York che era già guardinga rispetto a ciò che accadeva in Italia ma che era ancora immersa nella sua totale frenesia di metropoli. E sono rientrato in Italia due giorni prima che scattasse il lockdown e mi sono ritrovato chiuso in casa. Risfoglio oggi il libro, rivedo la mostra e ritrovo in quella narrazione personale, intima e immaginifica, costruita attraverso l’inquadratura fotografica, un clima che è diventato realtà: l’inquietudine di una città che si sta svuotando e si prepara a combattere una calamità che pare ancora lontana; la natura che si prende sempre e comunque quello spazio che le è stato completamente rubato.
BM: Hai raccontato New York ma oggi quel paradigma vale per ogni grande città del mondo. Paradossalmente la pandemia ha restituito speranza alla natura?
AR: New York è un esempio unico, perché di spazio vuoto ne ha pochissimo, è una città gentrificata ovunque, e dunque questi ultimi lembi di terra, di no man’s land, sono importantissimi perché la natura per riprendere spazio ovviamente comincia da lì. Ma è come se il mio lavoro oggi restituisse in forma di narrazione l’immagine degli ultimi due mesi di città che sono state silenziate e svuotate e, sia pure per poco, rigenerate. In questo periodo ha trionfato la retorica dell’essere umano, che deve esprimere pensieri di lungimiranza verde spinto dalla drammaticità del momento, ma poi tutto ritorna come prima. Siamo già peggio di prima. L’auto è diventata il nostro luogo di sicurezza, ci spostiamo in auto e forse riapriranno i drive-in. Sono così pessimista da prevedere che arriverà il peggio, ossia la scomparsa dell’essere umano. La natura non ha bisogno di noi, l’uomo non è fondamentale all’ecosistema del pianeta.
BM: Da dove potremmo ricominciare per costruire una nuova consapevolezza?
AR: Per esempio dai libri che hanno a che fare con una coscienza del rispetto della natura e del verde urbano, da quelli che indagano gli spazi abbandonati della città che tornano ad essere luoghi da praticare per la sussistenza, come accade con gli orti urbani. Da un libro come “La foresta nascosta – Un anno a osservare la natura” di David George Haskell, che per un anno intero, quasi ogni giorno, si è recato sul luogo prescelto e ha descritto quello che vedeva all’interno di un fazzoletto di terra dentro una foresta del Tennessee. È la stesura di osservazioni, sotto forma di brevi capitoli, a partire dagli accadimenti che vede: piccoli processi ecologici, passaggi di animali e insetti, l’alternarsi delle stagioni e il loro deposito. È un po’ quello che abbiamo fatto in queste settimane dentro le nostre case, muovendoci dentro stanze e osservando la collezione dei nostri oggetti e i titoli dei libri sugli scaffali delle librerie. È ricominciando dal microcosmo che forse possiamo prendere spunto per ridisegnare un mandala macro.