La scultura di ieri e di oggi nei contesti urbani e non solo offre uno “spettacolo” multiforme, nel senso non solo positivo del termine. La nostra, per ricchezza di interventi plastici, è di fatto una “Bergamo scolpita”, come restituisce la puntuale ricognizione di Marcella Cattaneo e Tosca Rossi nei due volumi di dedicati rispettivamente a Città alta e Colli e al Centro Piacentiniano e Borghi (edizione Grafica & Arte, Bergamo).
Per una volta abbiamo la curiosità di tuffarci in questo universo scultoreo, per spigolare un po’, senza preoccupazioni legate alla cronologia, alla visibilità, alla notorietà o ai registri linguistici. Alla ricerca di quelle sculture che più di altre ci sembrano aver saputo interpretare il senso dell’arte pubblica nei nostri contesti urbani e ambientali.
Ma prima un paio di domande.
Che cosa si intende per scultura?
Scultura, installazione, intervento site specific. Il tridimensionale nell’arte ha assunto tante e tali forme e si dispiega ormai su una varietà di materiali che il significato del termine “scultura” si è notevolmente ampliato. Così come è ormai privo di senso limitare i “codici” della scultura all’intento celebrativo, ritrattistico, storico o di semplice aspirazione alla bellezza.
Che cosa significa arte pubblica?
Il termine “arte pubblica” è ormai così sbandierato da generare una grande confusione. Non potrebbe essere più chiara la sintesi offertaci da Adachiara Zevi nel suo saggio “Arte e spazio pubblico” nell’enciclopedia Treccani: “Tre, sostanzialmente, le attitudini dell’opera d’arte nei confronti dello spazio pubblico. Autonomia, dunque distacco e indifferenza; consenso e condivisione; dissenso e opposizione”.
Un esempio, stranoto, per tutti: “Ago, filo e nodo” piazzato da Claes Oldenburg e Coosje Van Bruggen in piazzale Cadorna a Milano. La scultura è stata commissionata dall’amministrazione comunale di concerto con l’architetto Gae Aulenti ed è stata installata in una piazza frequentatissima. Eppure è evidente che sia un monumento autoreferenziale, astratto e privo di relazioni con il suo contesto.
Anche se un’opera è in uno spazio pubblico ma non dialoga con esso né con chi lo abita, come può dirsi “pubblica”? Non si tratta né di “arte in pubblico”, autoreferenziale appunto, ornamentale e avulsa dal contesto, né di “arte per il pubblico” che compiace i voleri di una committenza e del pubblico (come quell’Arlecchinone che troneggia sulla rotatoria di Villa d’Almè, di cui su Eppen abbiamo già avuto occasione di parlare). L’arte pubblica non può dirsi tale se non parte dall’ascolto del territorio e delle comunità che lo vivono.
Cinque sculture “pubbliche” a Bergamo e provincia
Manzù, il Monumento al Partigiano
Bergamo, Piazza Matteotti, 1977
Dolore e memoria privata diventano un tutt’uno con quelli universali. L’opera più famosa di Manzù a Bergamo è un condensato “da manuale” di tutti i requisiti dell’arte pubblica: si innesta in un luogo e in una storia; vive di vita propria, nella sua drammatica e potente bellezza, ma trova un senso solo nel racconto che intesse con i fruitori; è un’opera capace di suscitare dissenso (alla sua installazione fu giudicata troppo cruenta) ma anche grande condivisione, mai indifferenza.
Andrea Mastrovito, Neverending End – 100 Last Pages
Bergamo, Villaggio degli Sposi, 2014
Il più “internazionale” tra i nostri giovani artisti regala al quartiere un’opera permanente che celebra il valore rivestito dalla pagina scritta nella nostra vita. Il titolo è programmatico: “Fine senza fine –100 ultime pagine”. Sulle vasche e le sedute della piazza del complesso residenziale “Promessi Sposi” l’artista ha impresso cento ultime pagine, una per ognuno dei cento abitanti del quartiere che hanno indicato il loro libro preferito. Dai fioretti di San Francesco a “Orgoglio e pregiudizio”, da “Romeo e Giulietta” a “Le confessioni di un italiano”.
Un’opera d’arte che nasce, vive e dialoga con lo spazio urbano e sociale.
Francesco Somaini, Discesa dello Spirito Santo
Bergamo, facciata della Chiesa di Santo Spirito, 1970-72
Un affascinante esempio di come antico e contemporaneo, architettura e arte, sensibilità storica e contemporanea possano fondersi, senza fratture né discontinuità, in un unico “oggetto”. Una facciata incompiuta e innalzata in tempi e modi diversi come quella della chiesa di S. Spirito, che si mostra come un “archivio” di passaggi secolari – dalle strutture trecentesche agli elementi riconducibili alla cinquecentesca ristrutturazione di Pietro Isabello fino all’intervento affidato a Giovan Battista Caniana nel Settecento – trova unità in un intervento artistico. L’idea brillante scocca durante il restauro del 1969-1972, diretto da Bruno Cassinelli e progettato con la consulenza di Luigi Caccia Dominioni. L’artista comasco Francesco Somaini per S. Spirito disegna un’imponente fusione in bronzo che, aggrappata alla facciata sopra la porta di ingresso, interpreta il tema della “Discesa dello Spirito Santo”, siglando l’edificio sia dal punto di vista storico che simbolico.
L’opera è spiazzante e visionaria: l’irruzione dello Spirito Santo nel mondo è la traccia di una discesa vertiginosa, con il bronzo trascinato verso il basso come a tirare una materia incandescente, che poi si materializza per un attimo nella colomba, per tornare a sciogliersi in vortici d’aria che si infilano in chiesa dal rosone. Semplicemente magica.
Giosuè Meli, Il Gigante
Luzzana, Valle dell’acqua, 1841
Un singolare esperimento di scultura di paesaggio un secolo prima che nascesse la Land art: una passeggiata a piedi lungo il parco del Gigante in Valle dell’acqua, accompagna al cospetto dell’impressionante scultura rupestre (5 m x 4 m) che Meli fa letteralmente germogliare dalla roccia del Sasso della Luna. Dalla roccia viva emerge la grandiosa figura del busto di un Gigante con il capo riverso all’indietro, la mano abbandonata, gli occhi chiusi, la bocca appena socchiusa.
Che sia “il Gigante che sostiene la montagna”, come vogliono i luzzanesi, o un riferimento alla Deposizione, ciò che colpisce è la capacità di Meli di farsi interprete di una autentica arte ambientale, anticipando inconsapevolmente i dibattiti che più tardi si svilupperanno intorno a questa relazione. Il Gigante è una scultura che nasce dal paesaggio e lo asseconda, ma allo stesso tempo lo rende “parlante” di una memoria umana che si lega profondamente alla montagna.
Paolo Ghilardi, Atma
Cimitero di Stezzano, 1980
Se è vero, come negli ultimi anni è stato spesso ribadito, che i nostri cimiteri sono spesso autentici musei a cielo aperto, ecco che un’opera monumentale quale la gigantesca scultura in vetro dal titolo “Atma”, realizzata nel Cimitero di Stezzano da Paolo Ghilardi, diventa esemplare di una scultura pubblica senza tempo. Per quanto oggi necessiti quantomeno di un intervento di manutenzione, il grande velario vitreo, con le sue geometrie colorate, riesce a disegnare con leggerezza ma personalità uno “spazio” pronto ad accogliere tutti in questo giardino della memoria. Allo stesso tempo, librandosi leggera nell’aria e nella luce, annulla quella terribile forza di gravità che ancora ci fa vivere con fatica il tema della morte.