Per la Sicilia si parla spesso di sicilitudine, una sorta di saudade dell’isola che ha fortemente influenzato la letteratura del nostro Novecento, da Bufalino a Sciascia che, pur ammettendone l’esistenza, ne parlava con diffidenza, secondo un odi et amo verso la sua isola natia che espresse molte volte nei libri e non solo – “ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi” ha scritto il critico Paolo Isotta tracciando il rapporto di Sciascia con la sua isola.
Anche Andrea Camilleri è sempre stato diffidente verso la sicilitudine, preferendo parlare di sicilianità, un segno culturale pieno di sfumature e particolarità che riguarda il carattere, i rapporti umani, la lingua e soprattutto il cibo. Quella di Camilleri, nei romanzi incentrati sul commissario Salvo Montalbano, è una rappresentazione teatrale della Sicilia e della sicilianità, il cibo però va al di là della finzione.
Sembra che ci sia sempre un profumo di soffritto dalle parti di Vigàta, il paese inventato da Camilleri per ambientare le storie di Montalbano. Uno che parla, come gran parte dei personaggi della serie di romanzi, una strana lingua metà italiana e metà siciliana con quel tanto di comica teatralità a volte esilarante – com’è quella, involontaria e maldestra, di Agatino Catarella, la macchietta suprema tra le figure spesso eccentriche e non sempre definite dei romanzi.
Ma Montalbano soprattutto mangia. Mangia parecchio e spesso mette sotto i denti dei piatti tipicamente siciliani. Se è vero, dunque, che al successo del Commissario concorrono delle storie avvincenti e una lingua tanto artificiosa quanto efficace (soprattutto per chi isolano non è), anche il cibo fa la sua parte. Quello della Trattoria da Calogero (“Si può mangiari?” spiò a un cammereri coi capelli bianchi che, sentendolo trasire, era nisciuto dalla cucina e lo taliava. “Non c’è bisognu di pirmissu” arrispunnì asciutto l’altro. “Abbiamo antipasto di mare, spaghetti al nivuro di siccia, o alle vongole o ai ricci di mare”, da “La prima indagine di Montalbano”). E quello della sua Adelina, la cameriera tutto fare presente in casa quando non c’è la fidanzata Livia (“la signurina non ci piaci di vidìri-mi casa casa quannu c’è iddra”, da “Il cane di terracotta”), che gli prepara “la pasta con le sardi”, uno dei piatti preferiti da Salvo – “e pi secunnu purpi alla carrettera”. “Squisiti ma micidiali”, commenta Camilleri.
La pasta con le sarde
Ma perché Montalbano ha sempre così fame? Non possiamo saperlo, è certo però che l’amore per il cibo (e per le buone letture) è uno dei tratti che il commissario di Vigàta condivide con Pepe Carvalho, il personaggio inventato da Manuel Vázquez Montalbán (e il cognome Montalbano è un omaggio allo scrittore spagnolo).
Già citato poco sopra, la pasta con le sarde appare ne “Il cane di terracotta” (1996, Sellerio), uno dei primi polizieschi pubblicati da Camilleri. Siccome Vigata è in realtà Porto Empedocle in provincia di Agrigento (paese natale di Camilleri), noi cercheremo di preparare la pasta con le sarde secondo la ricetta agrigentina, quella che si mangia nelle case e nei ristoranti. La Sicilia non è una, dice Sciascia, quindi nemmeno i suoi piatti.
Partiamo dalla pasta: il bucatino o lo spaghetto sono le qualità ideali. Ne bastano 200 grammi per due persone, poi 250 grammi di sarde, 200 grammi di finocchietti selvatici (il rametto per insaporire, non il seme), 2 o 3 acciughe salate, mezza cipolla, un cucchiaio di pinoli e uno di uva passa, 1/4 bicchiere di vino bianco, mezza bustina di zafferano, olio EVO, sale e pepe. Il finocchietto, dal gusto caratterizzante, è a discrezione. A tanti non piace, noi lo metteremo e partiremo proprio da lì per la nostra preparazione.
Procuratevi il finocchietto già privato dei gambi più duri (lo trovate facilmente fra le spezie del supermercato), fatelo bollire in abbondante acqua salata per 15-20 minuti, toglietelo con la schiumarola e intanto conservate l’acqua di cottura – servirà per la pasta. Pulite le sarde (via la testa e le interiora), lavatele in acqua corrente e spezzettatele. In una padella fate soffriggere un trito di cipolla con un filo d’olio e aggiungete le acciughe salate, lasciando che si sciolgano.
Dopo aver aumentato il fuoco, unite finocchietto, pinoli, uvetta (strizzata, dopo essere stata ammorbidita nell’acqua) e sarde: per 2 minuti lasciate cuocere, le sarde piano piano si amalgameranno agli altri ingredienti e poi aggiungete il vino in cottura, fino a quando la componente alcolica sarà evaporata. Mettete poi lo zafferano sciolto in un bicchiere d’acqua del finocchietto. Infine sale e pepe: a questo punto non vi rimane che far bollire la pasta e condirla, spolverando con un po’ di pangrattato tostato.
La tabisca
C’è un passaggio ne «Il cane di Terracotta» in cui Montalbano deve partecipare a una conferenza stampa per aver catturato il boss pluriassassino Tano u grecu, da anni latitante. Ma il commissario di Vigàta non ama queste ritualità delle istituzioni e durante l’incontro coi giornalisti prova “una lunga, patita vrigogna”. Dalla scarica di domande degli addetti ai lavori lo salva l’amico Nicolò Zito di Retelibera, “tirando un salvagente” scrive Camilleri: “Commissario, mi permetta. Lei ha detto che ha incontrato Tano tornando da Fiacca dove era stato invitato da amici a mangiare una tabisca. Ho inteso bene?”, “Sì”, “Cos’è una tabisca?” chiede a Montalbano, dando la possibilità al commissario di spiegare cosa è e sviare le domande su come era stato preso Tano (che in realtà si era consegnato da solo alla giustizia).
Montalbano e Zito la tabisca, cioè la “pizza siciliana” come la si fa a Sciacca (o «Fiacca», storpia Camilleri), l’hanno mangiata tante volte insieme. È un’autentica goduria che potete cuocere nel forno a legna (ma anche elettrico va bene) e servire su un tagliere.
Servono 500 grammi di farina di grano duro, 20 grammi di lievito di birra, 250/300 ml di acqua tiepida, 2 cucchiai olio extravergine d’oliva, 1 cucchiaino di zucchero e una presa di sale. Per il condimento polpa di pomodoro, alici, una grossa cipolla, 100 grammi di pecorino grattugiato, origano secco, olio EVO, olive nere e sale. Ecco come si prepara.
Il lievito viene sciolto nell’acqua tiepida e piano piano disposto sulla farina a vulcano. Aggiungete la presa di sale e il cucchiaino di zucchero, l’olio ed impastate fino ad ottenere un composto morbido e liscio, che dovete lavorare per circa dieci minuti. Importante: l’impasto deve lievitare per circa 3 ore coperto da un canovaccio (altrimenti è poco digeribile). Quindi preriscaldate il forno a 200°C e intanto ungete un’ampia teglia rettangolare, stendendo bene la pasta con l’olio.
Passiamo al condimento: sminuzzate le alici, spalmate abbondantemente il pomodoro e la cipolla tagliata fine fine. Mettete nel forno e a metà cottura spargete abbondante pecorino, origano, olive nere e concludete con un giro di olio. Poi mettete di nuovo nel forno e attendete la doratura del tutto: la tabisca è ottima sia come aperitivo che come pasto.
I mostazzoli
Che lavoro faccia Gegè è meglio non saperlo qui, più utile è conoscere la ricetta dei mostazzoli, sicilianissimi biscotti al vino cotto di cui Montalbano va molto ghiotto. “Ci sono mostazzoli di vino cotto, quelli che ti piàcino. Me soro Mariannina li ha fatti apposta per te” dice Gegè al commissario sempre ne “Il cane di terracotta”.
Ma come si fanno? La ricetta classica prevede che si mescolino farina (500 grammi di tipo 00), zucchero (100 grammi), ammoniaca (in polvere, 6 grammi), chiodi di garofano in polvere (un cucchiaino), cannella macinata (due cucchiai), pepe (un cucchiaino), miele (25 grammi) e la scorza di arancia grattugiata. Sul composto va versato il vino cotto, impastando per ottenere un risultato uniforme, da mettere a riposo per 60 minuti. Dopo il composto deve essere diviso in bastoncini dello spessore di 2,5 cm, da appiattire e tagliare in rombi. Vanno poi passati nei semi di sesamo (100 grammi). I mostazzoli devono essere infornati preriscaldando a 220° per circa 20 minuti, fino a ottenere un colore bruno.
L’irresistibile richiamo del cibo
Pasta con le sarde, tabisca, mostazzoli: il cibo entra ed esce dalla narrazione di Camilleri, diventa un dettaglio determinante, il pretesto per una fuga, o l’“aggancio” in quella penombra fra legale e illegale necessaria a sbrogliare la matassa – tipico dei polizieschi: chi rappresenta la legge non sempre la rispetta, per fare in modo che gli altri rimangano nella legalità; vale nei romanzi, ma anche al cinema e in tv.
Le pietanze muovono la narrazione come il pezzetto di un (profumato) meccanismo, la riportano a una verosimiglianza da tavola imbandita o da irresistibile richiamo. Perché in fondo questo è Salvo Montalbano: un uomo, che ama il cibo e non sa resistere al richiamo di un piatto o di un vassoio di biscotti. Non è un eroe, non è un loser disperato, ama il suo lavoro e la sua terra: però ha fame, ha sempre fame. Ed è forse anche per questa sua “normalità” che piace così tanto.