Francesco Berneri, classe 1987, è addetto Marketing dell’azienda di famiglia, la Berneri. Ogni anno portano a stagionatura decine e decine di migliaia di forme, principalmente parmigiano e grana, che esportano in tutto il mondo. Ci ha raccontato del suo lavoro, della Cheese valley bergamasca.
MM: Ci spieghi in poche parole cosa fa la vostra azienda?
FB: La Berneri è stata fondata nel 1910 dai miei bisnonni, che venivano da Melzo e durante la Grande Guerra si sono trasferiti a Bergamo. La prima sede dell’azienda era in via Palazzolo e ora siamo a Lallio. Compriamo i prodotti freschi, appena marchiati dai caseifici, e poi li portiamo a stagionatura in base alla qualità delle singole partite. Ad esempio un mantovano lo portiamo a una maggiore stagionatura rispetto a un piacentino o un cremonese. Il nostro core business è rappresentato dal grana e dal parmigiano, che esportiamo anche all’estero.
MM: Ti sei sempre immaginato all’interno dell’azienda di famiglia?
FB: No. Sono entrato in azienda 6 anni fa, prima lavoravo nel mondo dell’arte. È un pallino che ho sempre avuto, fin da adolescente. Il mio sogno sarebbe stato studiare arte, ma mi sono tolto molte soddisfazioni in questo campo e non rimpiango questo cambio lavorativo. Non per niente anche il nostro pay-off è “Berneri - Forme d’arte”. Ora lavoro allo sviluppo del marketing e all’internazionalizzazione della Berneri.
MM: Quali sono le difficoltà nel vendere prodotti caseari agli asiatici?
FB: Non sono mangiatori di formaggio, hanno problemi ad assimilare il lattosio e sono molto legati alla loro cultura del cibo. Poi ogni popolo ha le sue particolarità: in Giappone sono molto rigorosi e attenti alla qualità e alla cura del prodotto. In Cina tutto è marketing e chiedono prodotti che a noi sembrano assurdi.
MM: Tipo?
FB: Una mousse di cioccolato al formaggio, il tè al sapore di formaggio, la loro oca con ripieno di formaggio. Non conoscendo il prodotto se lo immaginano come un contorno ai loro piatti principali. Ma esportando prodotti Dop non possiamo certo mettere l’etichetta del grana o del parmigiano sopra queste bizzarrie.
MM: Come si procede in questi casi?
FB: Facendo comunicazione e testing, cioè facendo assaggiare e spiegando l’utilizzo. Come abbiamo fatto in Vietnam, mercato acquisito dall’azienda alla fiera del 2016 a Bangkok. Inizialmente erano titubanti sul consumo di grana e parmigiano, ma piano piano abbiamo insegnato come usarlo in maniera corretta, ad esempio su un semplice piatto di pasta o su una tagliata di carne. Così il consumo è cresciuto e si è creato un mercato interno. Rimane un consumo di élite, soprattutto il parmigiano reggiano.
MM: Come difendere l’italianità del grana e del parmigiano?
FB: A questo servono i consorzi di tutela, ma difficilmente in Paesi come gli Usa si attiva questa tutela perché le leggi sono diverse, è più facile in Europa. In America il brand è tutelato fino a un certo punto, per questo possono vendere il parmesan cheese e tanti altri prodotti accomunati dall’italian sounding, che nel nome e nella confezione evocano l’Italia ma in realtà non sono Made in Italy. L’unica cosa da fare, oltre a politiche di marketing, è fare provare il prodotto originale per mostrare la differenza con il fake.
MM: A ottobre 2019 si è tenuta a Bergamo B2Cheese, la Fiera internazionale lattiero-casearia B2B. Qual è il ruolo di Bergamo nell’industria casearia?
FB: È stato un grande evento che si tenterà di riprendere in tempi migliori. Sono intervenuti operatori specializzati e buyer provenienti da 40 nazioni e si assegnarono i World cheese awards, vinse il Rogue River Blue prodotto in Oregon. Penso che Bergamo e la sua provincia meritino davvero il nome di Cheese valley e che si possano creare eventi e corsi legati al mondo lattiero caseario attorno a strutture come Astino, ad esempio. In generale, in Italia abbiamo una varietà di formaggi tale da fare invidia ai francesi, ma siamo meno nazionalisti e non abbiamo creato un cartello per venderli a prezzi d’oro.
MM: Sarebbe possibile internazionalizzare il taleggio?
FB: Il grosso problema dei molli e semi molli è la shelf life, cioè la data di scadenza. La loro durabilità è troppo breve perché vengano esportati via mare. A meno che non si proceda come le mozzarelle, che vengono conservate congelandole a meno 20 gradi. Per quanto riguarda il taleggio, mi accontenterei di farlo conoscere nelle altre regioni italiane, dato che il suo consumo è quasi solo lombardo. Ma abbiamo già iniziato a lavorarci.