«La nostra storia per molto tempo ha occultato tutto ciò che è legato alla fisicità, al corpo. Oggi questa visione è superata. Non perché si voglia parlare di corpo e basta, ma perché si è capito che parlare di cibo non è solo parlare di corpo, ma parlare di idee e pensieri. Non è una contrapposizione tra due modi di concepire la vita. È un concepire la vita integralmente». Per Massimo Montanari, docente di Storia dell’alimentazione e fondatore del master in Storia e cultura dell’alimentazione dell’Università di Bologna, di cibo oggi si parla molto – di cibo come cultura forse non abbastanza.
De Casoncello, festival made in Bergamo dedicato alle paste ripiene, tornerà in Città Alta dal 13 al 15 maggio proprio per parlare di storia e cultura enogastronomica, e per parlarne a tutti, addetti al settore e non. Sabato 14 maggio alle ore 10, la Sala dei Giuristi di Palazzo Podestà ospiterà il convegno «Paste Ripiene: Cibo dell’Accoglienza», accessibile gratuitamente senza bisogno di prenotazione.
Interverranno il professor Massimo Montanari, monsignor Giulio Dellavite, Segretario Generale della Curia Diocesana di Bergamo, la giornalista Silvia Tropea Montagnosi e un’esponente della Comunità Ucraina di Bergamo, la dottoressa Oksana Babiychuk, che racconterà la tradizione della pasta ripiena nelle sue terre, oltre alla responsabile del servizio promozione e sviluppo economia locale della Camera di Commercio Bergamo, Raffaella Castagnini. Abbiamo chiesto al professor Montanari qualche piccola anticipazione.
MM: Partirei da quello che è forse un luogo comune, ma che forse ha bisogno di essere maggiormente indagato: il cibo come cultura…
MM: Usiamo spesso queste due parole, «cultura» e «cibo», come se fossero due cose separate. Spesso leggo frasi del tipo «mettiamo un po’ di cultura nella cucina». Voglio scardinare subito questo concetto. La cultura non è altra cosa dal cibo. Tutto il percorso che il cibo fa dal momento in cui viene riconosciuto come commestibile, al momento in cui viene raccolto o prodotto, preparato o condito, fino al momento finale in cui viene mangiato, è caratterizzato da scelte culturali che cambiano nel tempo e nello spazio.
MM: Al termine «cultura» si associa spesso il termine «identità». Il cibo è qualcosa di molto identitario…
MM: Verissimo, come tutto ciò che fa parte della cultura, perché la cultura è ciò che ci identifica sia come individui che come comunità. Detto questo, le avvertenze sono due: primo, occorre sempre pensare che l’identità non è un qualcosa che fa parte della nostra genetica, del nostro DNA, ma una costruzione storica che nasce dagli incontri che i singoli o le comunità fanno con altre culture. L’identità è qualcosa che si modifica continuamente, un prodotto storico in continua evoluzione.
MM: E il secondo punto da tenere a mente?
MM: Nella lingua italiana, la parola «identità» è sia singolare e plurale: plurale vuol dire che tutte le volte che l’identità diventa uno strumento di guerra, di conflitto e non di incontro, è perché noi isoliamo all’interno delle tante identità di cui siamo fatti qualcosa che si contrappone a qualcos’altro. Se invece andiamo a cercare delle forme di identità che sono condivise il discorso cambia radicalmente. Occorre quindi pensare all’identità come a una “forma di identità”, una forma di appartenenza che non ne esclude altre.
MM: Il convegno che la vedrà come ospite sabato sarà dedicato alle paste ripiene. Come si inserisce la pasta ripiena in questo discorso sull’identità?
MM: Quando pensiamo alla pasta ripiena, possiamo certamente individuare delle realtà identitarie, nel senso che ogni comunità ha la sua particolare tradizione di forme e contenuti. Al di là di questo, c’è un altro tipo di identità più ampia che è quella della “pasta ripiena” in sé, che unisce tante culture diverse. È bello identificarsi in qualcosa, ma dal mio punto di vista è ancora più bello pensare che stai facendo la tua declinazione personale di qualcosa che appartiene a un mondo molto ampio, un mondo che va oltre l’Italia, e addirittura oltre l’Europa: la pasta ripiena c’è nella tradizione cinese, giapponese… questo gesto di riempire è un gesto molto consueto nella storia delle culture alimentari.
MM: E cosa c’entra la pasta ripiena con il tema dell’accoglienza?
MM: Il tema dell’accoglienza è un tema molto forte quando si parla di cibo: il cibo è un momento identitario, ma anche di condivisione, di offerta del sé agli altri e viceversa. Per questo tipo di accoglienza, la pasta ripiena può essere metafora perfetta perché la pasta ripiena è un qualcosa che accoglie un qualcosa d’altro… Fisicamente è la metafora dell’accoglienza: all’interno di quello che chiamiamo tortello si può includere qualsiasi cosa: è accoglienza per definizione.
MM: Si dice che le paste ripiene siano nate per riutilizzare gli avanzi di carne… è così?
MM: Io penso che questa idea che la pasta ripiena sia il recupero degli avanzi sia vera, ma di certo non è l’unica. Anche qua, torniamo al discorso dell’identità. La pasta ripiena è un oggetto inclusivo che può contenere una preparazione preziosa o una preparazione povera. È un oggetto in cui si possono trovare culture, classi sociali e modi diversi di fare cucina.
MM: Nel corso del convegno, lei parlerà specificatamente di ravioli e tortelli come invenzione medievale…
MM: Esatto, almeno in Occidente, il Medioevo è il momento storico in cui questo oggetto gastronomico comincia ad avere un’importanza centrale nel sistema culinario. Spiegherò come queste due parole che oggi usiamo come sinonimi («tortelli» e «ravioli»), nel linguaggio medievale indicavano due cose diverse: il tortello come contenitore e il raviolo come contenuto. Questo discorso ci fa capire che la lingua cambia, come le cose e il loro gusto… il tortello è identitario, il raviolo è identitario, ma il raviolo non è sempre lo stesso: non è lo stesso da un paese all’altro – quindi cambia nello spazio – e non è lo stesso nella nostra storia, perché il raviolo che si preparava nel Medioevo era sicuramente simile nell’aspetto fisico a quello di oggi ma diverso nel gusto – quindi c’è una variazione nel tempo.
MM: Quando assaggiamo sapori diversi dai nostri, ci troviamo spesso a dire “ma non è buono come il nostro”. Perché mangiare le cose degli altri è così difficile?
MM: Rientriamo ancora nel tema dell’identità culturale. È chiaro che non posso essere contemporaneamente me e tutti gli altri. Ognuno è legato ai suoi sapori, alla sua cultura, per cui provare quello degli altri può essere difficile. Però la difficoltà è anche la molla dell’interesse, della scoperta, di nuove possibilità… Tutto dipende dal nostro atteggiamento: non si tratta di essere tutti uguali, ma di essere interessati a capire come sono fatti gli altri, e come sono fatte le cose degli altri.
MM: Oggi si parla più di cibo rispetto al passato?
MM: Di cibo in realtà si è sempre parlato molto. Non è che la letteratura di un tempo non parlasse di cibo, oppure che non ci fossero libri di cucina. È che questo tipo di scrittura e lettura storicamente era riservato a pochi. Oggi si è ampliato enormemente il numero delle persone che parlano, scrivono e leggono di cibo. Al di là delle normali operazioni legate alla moda o al marketing, parlare di cibo è positivo perché vuol dire dare (o ridare) a questo oggetto della nostra vita quotidiana la centralità che ha. Non c’è dubbio che il cibo sia centrale nella nostra vita: noi siamo fatti di cibo, senza cibo non esisteremmo. E cibo non vuol dire solo nutrizione, ma anche piacere, salute, socialità… Tutto questo è fondamentale nel nostro rapporto col mondo. Parlare di cibo è una cosa buona, perché riporta al centro dell’attenzione una cosa che è centrale – e soprattutto la riporta in un modo che include il materiale e il mentale.
MM: Un’esperienza culinaria è un’esperienza “totale”, insomma.
MM: Esatto. Coinvolge il gusto e l’olfatto, la vista, il tatto. Coinvolge anche il sesto senso, l’atteggiamento mentale, che è anche un senso fisico. L’atteggiamento mentale che abbiamo quando mangiamo ha dei risultati fisici: l’ambiente, la compagnia, l’attenzione, la cura, le cose che vediamo attorno a noi e sono fatte bene… tutte queste cose producono un effetto nella nostra mente che è di piacere, soddisfazione. Non esiste forse nient’altro come il cibo per rendersi conto di come il materiale e il mentale siano insieme un’esperienza. Non per niente la parola «convivio», che vuol dire «mangiare insieme», etimologicamente vuol dire «vivere insieme», cum-vivere. È un’equiparazione totale del concetto di vita e di cibo, e del concetto di mangiare insieme così come si vive insieme.
MM: Le faccio un’ultima domanda, prima di lasciarla. Qual è il suo rapporto con la cultura gastronomica bergamasca?
MM: È molto semplice, non ho nessun rapporto con la cultura gastronomica bergamasca, l’ho sempre sperimentata di corsa, in modo occasionale… Sono molto curioso: sarà un’esperienza da ricordare.