«Cabin crew prepare for landing». Ho lasciato Bergamo, casa mia, per trasferirmi in Cina, a fine aprile 2022, appena prima del famoso weekend in cui in Italia si sarebbero tolte le mascherine per sempre. Ero consapevole che per me la questione sarebbe stata un po’ più complicata, visto che la Cina era appena entrata in lockdown, con uno scarto temporale di due anni rispetto al resto del mondo.
Ricordo come fosse oggi di essere atterrata a Pudong, l’aeroporto internazionale di Shanghai, con l’unico volo della giornata. L’unico volo di un aeroporto tra i più grandi della Cina, in una città che da sola conta trenta milioni di abitanti. Vuoto. Spettrale… Abbastanza inquietante.
Ovviamente non nascondo che fossi un po’ preoccupata, ma “qui” non hai modo di sbagliare: vieni guidato fin da subito in un processo che non prevede alternative. Così, in una città vuota, su un pullman vuoto, approdo allo Shanghai Hotel, pronta a iniziare la quarantena. Il nome dell’albergo evocherebbe lusso e splendore, se non fosse che la situazione era più da set cinematografico de «La città fantasma». Tutto bianco, per via del disinfettante, completamente deserto se non per la presenza di pochi sparuti omini, vestiti di bianco con la maschera da sub, dagli occhi spesso sorridenti.
Colazione in quarantena
Il mio primo incontro con la cucina cinese “ortodossa” è avvenuto proprio qui, in quarantena. Di questa esperienza ricordo principalmente la colazione: yogurt; una pallina smorta, cotta al vapore, con al suo interno un misto incomprensibile, dal colore sospetto, e un uovo sodo, dall’albume colorato. Scettica e fiera della mia moka elettrica e dei frollini portati dall’Italia, lasciavo sempre la colazione sul tavolino, fuori dalla porta della mia camera, da cui non potevo uscire se non per prendere il cibo che mi veniva portato.
Un giorno, però, ho trovato una brioche confezionata. Quella brioche ha avuto un valore inestimabile, in quel contesto in cui mi sentivo semplicemente parte di un processo, più che una persona. Un’attenzione che è valsa come un benvenuto di un Paese intero.
Non ho mai mangiato la colazione cinese durante la mia permanenza, ma ho imparato ad apprezzare tanti cibi sconosciuti. I Baozi non sono palline smorte: il ripieno è, per esempio, verdura e tofu, e le uova non sono colorate per chissà quale additivo, ma semplicemente perché vengono cotte nel tè. Sì avete capito bene, nel tè. Avete mai provato a usare il tè per cuocere a vapore?
Razioni e scambi
Comunque questa esperienza mi ha fatto prendere una decisione: prima di iniziare a provare a fare la biologa nutrizionista in Cina, avrei dovuto conoscere meglio le abitudini culinarie di questo Paese.
Una volta uscita dalla quarantena, sono stata trasferita nella nostra casa, con mio marito: un condominio (detto Compound) di dieci palazzi da quaranta piani l’uno, con un giardino condominiale in centro, il cui perimetro misurava circa un chilometro. Ovviamente tutti erano ancora in lockdown, non si poteva uscire se non in giardino, e il cibo (l’unico disponibile per ogni famiglia) era consegnato a tutti dal governo.
Arrivava di tutto, ma sempre a ondate: a casa ho trovato cinquanta – letteralmente cinquanta – uova in frigorifero, una “giga-carota” bianca (il Daikon) e due anatre surgelate in freezer. Ho scoperto presto un trading tra vicini per scambiarsi il surplus, ovviamente, tra gli “expat”, cioè noi, i “laowai”, gli stranieri, come ci chiamano qui. Passavamo le giornate a far rivivere le anatre in ascensore in cambio di un chilo di farina o di detersivo per la lavastovigli e. Mi ricordo di averlo pure fatto in casa con limone e bicarbonato, seguendo un tutorial. Ogni volta che arrivava la scatola del cibo andavo su Internet a cercare di identificare con le foto il tipo di vegetale che arrivava di volta in volta. Internet sì, ma dimenticate YouTube: qui non va.
Ho imparato tantissimo durante questa full immersion e ho anche iniziato a fare le mie versioni di piatti, sulla scorta di quello che vedevo nei ristoranti cinesi in Italia. Potete anche immaginare la prima volta che ho affrontato alcuni tipi di funghi o che ho dovuto pulire il bambù davanti a un tutorial in cinese. Altra scelta, comunque, non ne avrei avuta… Almeno fino a metà giugno, quando finalmente ho scoperto il mondo al di fuori delle mura di casa.
Allora, lasciando alle spalle la polenta e i casoncelli della “mia Bergamo”, mi sono immersa in un mondo dove “cucina cinese” non è quello che si trova nei menù d’Italia.
Un giro nelle cucine regionali
Prima di tutto, facciamo chiarezza su un punto fondamentale: parlare di “cucina cinese” al singolare è un po’ come cercare di infilare il vasto oceano in una teiera. Con i suoi 9,6 milioni di chilometri quadrati, posizionandosi come il quarto paese più grande del mondo, la Cina è un mosaico di culture, tradizioni e, naturalmente, cucine. Pertanto, l’idea di un “ristorante cinese” unico, come spesso lo immaginiamo in Italia, non coglie l’essenza di quella che è, in realtà, una ricchissima varietà gastronomica ben radicata nelle diverse regioni di questo immenso paese.
A Shanghai si trova tutto: un mix globale composto da piatti italiani a messicani, dal sushi giapponese alla cucina sofisticata di ristoranti stellati. Esiste una cucina tradizionale naturalmente: piatti dolci e succulenti. Arrivando a Shanghai ci si ricrede completamente sul detto comune che in Cina si mangi solo piccante. Qui il dolce si sposa con il salato, regalando piatti ricchi e confortanti. Dal punto di vista nutrizionale, diciamo che è un po’ più indulgente, anche perché lo zucchero è un ingrediente basilare di questa cucina, ma ogni tanto un po’ di comfort food non fa male a nessuno, giusto?
Nello Hunan e Sichuan, la cucina è fatta di fuochi d’artificio e di sapori piccanti e intensi. Sono famosi per le spezie, per il pepe nero e il peperoncino, che mettono in qualsiasi piatto, a partire dalla colazione. Nello Yunnan, i piatti sono un inno alla biodiversità, ricchi di funghi e piante locali. Si tratta di una cucina più legata alla montagna, vista l’altitudine di alcune di queste città ai piedi dell’Himalaya. Quando ho avuto occasione di fare una vacanza in quest’area ho mangiato un piatto di funghi porcini che mi ha fatto sognare di essere in Italia. Invece ero a Lijiang.
Benvenuti nel Guangdong, amanti della cucina più light, dove la parola d’ordine è «freschezza». Qui si celebra il vero sapore degli ingredienti, dal pesce appena pescato al Dim Sum cucinato a vapore. Il Dim Sum è un termine che descrive un tradizionale pasto cinese composto da piccoli piatti, simili a tapas, che vengono solitamente serviti insieme a tè. La parola Dim Sum in cinese significa letteralmente «toccare il cuore», suggerendo che questi piccoli bocconcini sono destinati a deliziare piuttosto che a saziare completamente. Nutrizionalmente parlando, questa cucina è un alleato per chi cerca un’alimentazione equilibrata, ricca di proteine magre e verdure croccanti. Un trionfo di sapori delicati che accarezzano il palato e la salute. Questa è quella che chiamiamo la cucina cantonese, famosa in tutta la Cina, oltre che in Italia.
Conosciuta per la sua eleganza e la sottile dolcezza, la cucina dello Jiangsu è l’arte culinaria fatta cucina. Piatti come l’anatra alla pechinese e la zuppa di pesce argentato sono icone di questo stile, che privilegia la qualità e la stagionalità degli ingredienti. Da un punto di vista nutrizionale, è un invito a gustare la varietà stagionale, assicurando un apporto diversificato di nutrienti.
La lezione più importante
Indipendentemente dalle diverse cucine regionali che caratterizzano l’immenso mosaico culinario della Cina, vi è una pratica universale che accomuna l’esperienza gastronomica in tutto il paese: l’arte della condivisione a tavola. Ovunque ti trovi, i pasti vengono ordinati collettivamente, non per singoli ma per l’intero gruppo, e serviti su un tavolo rotondo, dotato di un piatto girevole al centro. Questa scelta non è casuale: il design circolare del tavolo, privo di spigoli e senza un capotavola definito, riflette i principi del Feng Shui, enfatizzando l’armonia, l’equità e la fluidità nelle relazioni sociali. In questo modo, ogni piatto diventa un’esperienza condivisa, rafforzando il legame tra commensali e sottolineando l’importanza fondamentale della comunità e dell’unione nei valori culturali cinesi.
E così, tra casoncelli e Baozi, la mia avventura culinaria mi ha insegnato più di quanto potessi immaginare. Dall’atterraggio in una Shanghai spettrale alla scoperta delle molteplici anime della Cina attraverso i suoi piatti, ogni assaggio è stato un tassello in più nel mosaico della mia esperienza professionale e personale. Oltre a conoscere gusti e ingredienti, ho imparato l’importanza della condivisione, fulcro di ogni pasto cinese, dove il cibo diventa un veicolo di relazioni e storie condivise.
Al di là delle differenze regionali, l’arte della condivisione a tavola unisce, rendendo ogni pasto un momento di gioia collettiva. Ho avuto la conferma che il cibo è molto più di nutrimento: è ponte tra culture, linguaggio universale di accoglienza e amore. Probabilmente è questo il punto di convergenza che mi fa sentire a casa.