In poche semplici parole, il discorso di Jannik Sinner al momento di mettere le mani sulla coppa dell’Australian Open è un compendio di pedagogia: «Auguro a tutti di avere dei genitori come i miei, mi hanno sempre lasciato scegliere, non mi hanno mai messo sotto pressione anche quando praticavo altri sport. Auguro a tutti i bambini di avere la stessa libertà che ho avuto io».
C’è una lettura immediata: lasciate che i bambini facciano sport senza pressione, che ne provino tanti, che siano liberi di seguire le loro inclinazioni, che non debbano soddisfare le aspettative dei loro genitori.
Un messaggio importante, considerando gli orrori dello sport giovanile, dove già a 8 anni ci sono i “fenomeni” e i “perdenti”, dove alcuni genitori (e alcuni allenatori) usano i bambini per riscattarsi dalle proprie frustrazioni, e dove spesso il risultato è l’unico metro di valore ¬– come se vincere il torneo dell’oratorio fosse più importante di imparare a giocare. Ma il messaggio di libertà che ha lanciato Sinner dal palco australiano si può applicare anche ad altro, oltre allo sport: laissez faire, fidatevi dei vostri figli, date loro tutte le possibilità che potete offrire, ma poi fatevi da parte, lasciateli crescere. Non è con le vostre ossessive pressioni che avranno successo: deve venire da loro, devono scegliere loro.
Qual è la scelta “giusta” non possiamo saperlo
È molto facile dire a posteriori, dopo che il figlio ha vinto uno slam: bravi signori Sinner, siete stati ottimi genitori. Ma mettevi nei panni di Hanspeter e Siglinde 10 anni fa, quando il 13enne Jannik – campione nazionale di sci, vincitore del trofeo Topolino (lo stesso di Alberto Tomba) – decise di lasciar perdere tutto e andare via di casa per dedicarsi al tennis. Avranno avuto qualche dubbio? Magari, pur fidandosi del giovane Jannik (che immagino assennato com’è ora), si saranno chiesti: e se poi si pentisse? Se sprecasse il suo talento? Se si trovasse male? Se quella per il tennis fosse un’infatuazione passeggera? Dovremmo spronarlo? Indirizzarlo meglio?
Non sono domande sbagliate, e non c’è una risposta giusta. O meglio: c’è solo con il senno di poi, quando tuo figlio è diventato un campionissimo e qualsiasi decisione tu abbia preso durante la sua infanzia, dalla marca di biscotti da comprare per colazione alla scelta della scuola da frequentare, è inevitabilmente considerata “quella giusta”.
Tutti conosciamo qualcuno che ha il rimpianto di avere abbandonato un talento o una passione – che fosse il pianoforte, il judo o il disegno – perché era diventato impossibile conciliare tutto, perché la scuola era troppo impegnativa, perché i genitori non lo hanno spronato e non ci hanno creduto abbastanza. Ma conosciamo anche chi ha finito per odiare il pianoforte (o il tennis) perché i genitori lo hanno obbligato a fare qualcosa che non piaceva più. Quando diciamo che fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, è proprio questa cosa qui: vorresti fare del tuo meglio, ma a volte non ci riesci, non sai, sbagli.
Quanto conta la fortuna
Ammettiamolo serenamente: “riuscire” nella vita è anche questione di fortuna, senza nulla togliere al talento e al duro lavoro. Allo stesso modo crescere dei “bravi figli” (inteso come “brave persone, accettabilmente felici”, non per forza campioni di qualcosa) è anche questione di fortuna, senza nulla togliere all’impegno costante che è giusto metterci.
Il successo di Hanspeter e Siglinde non è quello di averci regalato uno dei tennisti più forti della sua generazione. Quello è merito suo, del suo allenatore, del suo gruppo di lavoro. Loro gli hanno dato la libertà di poterlo essere, ma soprattutto hanno cresciuto uno sportivo che dice cose intelligenti in tre lingue diverse ed è un esempio positivo per tutti. Un giovane uomo capace di reggere una fortissima pressione (e questo è normale per uno sportivo ai massimi livelli) e attacchi personali del tutto gratuiti (e questo è meno normale) mantenendo un aplomb che la maggior parte di noi perde dopo aver sbagliato l’uscita al casello di Bergamo, senza alimentare mai mezza polemica, senza levarsi neanche un sassolino dalle scarpe, quando si sarebbe guadagnato il diritto di seppellire i detrattori sotto cumuli di ghiaia.
Ci si nasce così? È merito dell’educazione? È l’aria della Val Pusteria? È lo sport che forgia? Probabilmente una combinazione di concause, come rispondevo durante le interrogazioni di storia quando non avevo studiato molto. Pur non capendo nulla di tennis, la resistenza psicologica e la mentalità che bisogna sviluppare per giocare ad alti livelli non mancano di affascinarmi. Ed è proprio il motivo per cui Sinner ha dichiarato di avere preferito il tennis allo sci. «Nello sci se cadi, non sai mai se ti rompi qualcosa. Nel tennis se perdi un punto, se sbagli una palla, hai sempre la possibilità di vincere. Mentre in una gara di sci è diverso: se fai un errore sai che non puoi vincere».
Vincere non è l’unica cosa che conta
Ma vincere non è l’unico metro per misurare la riuscita di un essere umano, altrimenti noialtri che non vinceremo mai nessun torneo (non dico uno slam, ma neppure quello del circolo sotto casa) dovremmo buttarci giù dalla rupe. Com’è stato per Federer, i grandi campioni sono una fonte di ispirazione, più che di invidia, grazie al loro atteggiamento e al loro modo di affrontare le partite, che le vincano o che le perdano.
Dopo la vittoria con Medvedev qualcuno ha ricordato una precedente partita fra i due, alle Atp Finals del 2021. Il russo si impose in tre set: al cambio campo del primo, vinto 6-0, sbadigliò ostentatamente davanti alle telecamere, a mostrare quanto Sinner non fosse un degno avversario. Sinner si lamentò forse dell’atteggiamento poco sportivo? Tutt’altro: ce la mise tutta, riuscì a strappare un set a Medvedev e perse comunque, facendo i complimenti all’avversario.
Dovremmo stare attenti quando diciamo ai nostri figli che, se ci credono veramente, possono fare e diventare quello che vogliono. Anche lavorando moltissimo e facendo tanti sacrifici, il 99,9% dei ragazzini che oggi sognano di emulare le gesta di Sinner è destinato a fallire, se per fallire intendiamo: «Non vincere uno slam» o anche solo: «Non arrivare fra i primi 100 giocatori al mondo». Ha ragione Gianni Morandi: «Uno su mille ce la fa», e non è che gli altri 999 siano degli imbecilli.
Quel ragazzo che, non ancora maggiorenne, vinse il suo primo titolo Challenger a Bergamo, non è un esempio per i giovani in virtù della sua fenomenale carriera. Di Sinner dovremmo piuttosto lodare la capacità di assumersi le proprie responsabilità, perseguire i propri obiettivi, volare alto sulle fesserie che dice la gente (ne cito solo una: «Non è italiano»), credere nelle proprie capacità anche quando si è sotto di due set, non accampare scuse, non dare colpe agli altri, saper vincere con classe e sapere perdere con altrettanta classe.
Non c’è un unico modo
Come sa chiunque abbia letto «Open», l’autobiografia di Andre Agassi, non c’è un’unica ricetta per diventare campioni di tennis, come non c’è una sola ricetta per diventare esseri umani decenti. C’è chi lo diventa grazie all’educazione dei propri genitori, chi lo diventa nonostante, chi per reazione opposta e contraria.
«Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato» dice Andre Agassi nel suo libro, dove racconta come il padre, ex pugile immigrato dall’Iran, gli abbia messo in mano una racchetta a due anni, sottoponendolo a durissimi allenamenti con la macchina lanciapalle: «Se colpisci 2.500 palle al giorno, ne colpirai 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile».
Non tutti i bambini sottoposti a un simile regime vincono il grande slam – Mike Agassi aveva altri tre figli cui applicò la stessa disciplina, nessuno dei quali diventato un campione – così come non tutti i bambini cresciuti liberi nella Val Pusteria diventano Jannik Sinner. Un fuoriclasse è per definizione un’eccezione, da qualsiasi ambiente provenga. La storia di Sinner, però, ci insegna che un adolescente può darsi disciplina e obiettivi anche da solo. Da genitori, il nostro obiettivo non è che un figlio diventi campione, ma che riesca a occupare il suo posto nel mondo, senza essere noi a decidere quale sarà.