Più o meno è andata così: nei secoli dei secoli le donne hanno allattato al seno. I bimbi delle nobildonne, ma anche i trovatelli mantenuti dalla pubblica carità o i figli di chi non aveva latte, andavano a balia (se erano abbastanza fortunati, se no morivano). Poi, nel 1865, il signor Liebig inventò il latte in polvere: una rivoluzione, perfezionata nel tempo, che salvò la vita di molti neonati.
Dal 1950 in poi assistiamo in Occidente alla riduzione dell’allattamento al seno e all’uso crescente di latte artificiale e cibo per bambini, con lo svezzamento precoce. In Italia il boom del biberon è degli anni ’70, quando questo metodo era visto come più pratico e moderno.
Poi, il contrordine: negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza dell’importanza del latte materno come “alimento insostituibile”, si sono denunciate le ingerenze indebite dei produttori di latte in polvere e adesso in Italia – negli ospedali, ai corsi preparto, dal pediatra, dalle associazioni di sostegno alla maternità – viene promosso l’allattamento al seno.
Non è il mondo dei bisnonni
Tutto giusto. Tranne il fatto che non siamo tornati nel mondo dei nostri bisnonni. I neonati sono sempre meno, i ritmi sono diversi, le donne (pur sempre dotate di mammelle) sono cambiate: lavorano, si preoccupano del loro benessere, hanno qualche ritrosia a interpretare il ruolo delle mucche da mungere. L’allattamento al seno non è più considerato “scontato”, ma è una scelta precisa. La madre si documenta, studia e confronta le diverse possibilità, e decide per l’allattamento esclusivo.
“Ma sarò capace?” è la domanda successiva. Qui sarebbe facile rispondere: “Certo, è la cosa più naturale del mondo!”, ma io ho una certa repulsione per l’abuso del termine “naturale”, specie se considerato sinonimo di “giusto” o di “facile”.
Dolore, tagli, ingorghi
Spesso l’allattamento non è facile. I primi giorni, ma anche le prime settimane, è normale provare fastidio. Un fastidio che può diventare dolore e frustrazione. Uno scoglio difficile da superare da sole, se non si è abbastanza motivate o supportate.
Può capitare anche che il bambino sia troppo debole o stanco per succhiare bene (una eventualità possibile anche nei secoli passati, solo che lì i neonati meno vigorosi morivano e basta). Il capezzolo può avere diverse conformazioni, essere più o meno delicato, e non è infrequente che si formino ragadi, cioè piccoli taglietti che sanguinano e provocano dolore quando il lattante si attacca. Le ragadi possono essere collegate alla mastite, cioè all’ingorgo mammario con ristagno di latte, che causa gonfiore, dolore, febbre. Problemi generalmente risolvibili, ma portatori di molti disagi.
Dopo i primi 3 mesi del bambino, le madri italiane che continuano ad allattare esclusivamente al seno sono meno del 50% (il dato ricalca quello medio dei Paesi europei). E a 6 mesi l’allattamento esclusivo al seno è inferiore al 10%. Quindi allattare è tutt’altro che scontato. Tra le difficoltà oggettive citiamo anche la conciliazione con il lavoro, visto che la maternità obbligatoria è di 5 mesi e molte madri non hanno nemmeno quella.
Ho visto tante amiche rovinarsi i primi mesi con il bebè per un cattivo allattamento, diventato per loro una tortura. Erano madri convinte della bontà dell’allattamento al seno, che hanno chiesto aiuto (salvo essere colpevolizzate perché “il bambino non si attacca bene” o perché “bisogna resistere e poi andrà meglio”), ma che a un certo punto hanno mollato. E da quel giorno sono rinate e il loro rapporto col bambino è migliorato.
A volte, però, va tutto bene
La mia esperienza, al contrario, è stata positiva: ho allattato per 11 mesi, ed ero prontissima a smettere alla prima difficoltà. Detesto la mistica della “madre che si sacrifica” e credo che il dolore sia inutile e vada combattuto. Ero ben decisa a sbranare qualsiasi ostetrica, parente, pediatra o consulente dell’allattamento che avesse provato a farmi sentire in colpa se avessi deciso di smettere di allattare (è il motivo per cui tante campagne pro allattamento secondo me non funzionano. Invece che mettersi al servizio della madre e del bambino sembrano giudicare col dito puntato: “Non lo sai che il tuo latte è meglio? Stai sbagliando qualcosa! Con un po’ di forza di volontà ce la puoi fare, è una cosa naturale!”).
D’altra parte non vedevo perché regalare soldi a chi produce qualcosa che il mio corpo, gratis, fa meglio. In più sono pigra: l’idea di dover preparare i biberon, scaldarli, sterilizzarli (di sicuro avrei infranto qualche norma igienica) e di non potermi muovere di casa senza tutta l’attrezzatura mi pareva faticosissima. Devo ammettere che questi motivi piuttosto egoistici, più che il benessere del bambino, mi hanno spinta a allattare. Ed è andato tutto alla perfezione. Perciò, l’unica cosa che direi a una futura madre dubbiosa è: prova senza paura, con un po’ di fortuna andrà tutto bene.
Allattamento a richiesta
Per molto tempo si è pensato che il neonato avesse bisogno di “regole” precise e orari fissi per l’allattamento, perché se no “si vizia” o ne risente la salute. Ma è da svariati decenni che nessuno crede più a questi miti e si incoraggia l’allattamento a richiesta, vale a dire che il neonato mangia quando ha fame, cioè a intervalli piuttosto ravvicinati, soprattutto nei primi mesi. Un sistema dagli indubbi vantaggi. Non bisogna misurare nulla e si è sicuri di venire incontro alle esigenze del bambino.
Voglio però citare l’indicazione che mi diede un anziano pediatra, anche se sembra in controtendenza rispetto ad alcuni sacri principi delle leghe per l’allattamento: “A richiesta non vuol dire che a qualunque pianto o malessere del bambino gli si dà il seno. Il bambino deve attaccarsi perché ha fame”. Ho sempre seguito questo consiglio con soddisfazione, facendo passare almeno due ore fra una poppata e l’altra, cosicché ogni volta il bebè poppava a lungo e non avevo dubbi che stesse mangiando. Ciò mi ha permesso di essere più rilassata, di potermi rivestire ogni tanto, di non sentirmi in dovere di essere disponibile h24 e di godermi di più il momento.
Una questione ideologica
Il problema è che in Italia siamo arrivati a quota1,29 figli per donna e, come abbiamo visto, dopo i primi mesi i bambini allattati al seno sono meno della metà. Quindi l’allattamento non è più una cosa normale, quotidiana, ma una rarità. Per questo, alcune ne fanno un feticcio. Un modo per distinguersi dalla massa e sentirsi migliori, specie in caso di allattamento prolungato.
Al seno vengono attribuiti una serie di valori mistici e simbolici, di legame con la madre, naturalità, bontà, accettazione, conforto, rifugio, bandiera. Concludere l’esperienza dell’allattamento è visto come una violenza o comunque un momento tragico di distacco dal bambino. Va da sé che su chi non allatta, o non allatta “a termine”, pesano altrettanti giudizi negativi.
Ho allattato con piacere, ma ho orrore delle fanatiche. Credo che l’allattamento sia un diritto da rivendicare, ma non un vessillo sotto cui riunire le madri “migliori”. Non una medaglia da esibire.
Ho proseguito l’allattamento al seno durante lo svezzamento, riducendo le poppate fino a smettere del tutto. Un percorso graduale e serenissimo (so di essere stata fortunata e che non è sempre così). Introdurre le pappe è stata una liberazione, non perché non mi piacesse allattare, ma perché mi ha permesso di allontanarmi dal bambino per periodi superiori alle due ore. Fare una passeggiata senza guardare l’ora, andare al cinema, lavorare.
Ciucci, cipolle e cavolfiori
“Sei matta a dare il ciuccio? È un interferente dell’allattamento!”, dicono quelle che la sanno lunga. Magari è anche vero, non ho competenze per dire il contrario. Ma le puericultrici del nido dell’ospedale dove ho partorito lo davano senza problemi per fare stare tranquilli i pupi (ricordo che una puerpera protestò con veemenza). Ho seguito il loro esempio e mio figlio non ha mai avuto problemi. Per circa un anno e mezzo il ciuccio è stato l’accessorio più indispensabile delle nostre giornate.
Il primo giorno dopo il parto, presa dalla voglia di fare bene, chiesi – sempre a una delle mitiche puericultrici del nido – se il bambino si fosse attaccato bene, memore degli schemini per la corretta suzione che ci avevano mostrato al corso preparto. Mi degnò appena di uno sguardo: “Certo, se succhia…”. In effetti, perché farsi problemi quando non ce ne sono.
Mi è capitato di mangiare broccoli, cipolle, spezie e altri cibi sconsigliati durante i mesi di allattamento, e talvolta ho persino bevuto mezzo bicchiere di vino (lo so che qualcuno ora vorrà togliermi la potestà genitoriale). Ho allattato per lo più a letto – ho già detto che sono pigra, vero? – ma anche sulle panchine, sull’amaca, in casa d’altri, in pubblico. Non mi è mai capitato che qualcuno, in un locale o per strada, avesse da ridire o mi chiedesse di spostarmi. Che non sia successo a me non vuol dire che non accada, naturalmente, ma non ho mai avuto l’impressione che l’allattamento sia malvisto. Ho piuttosto dovuto scansare i complimenti e le domande delle vecchiette (perché le donne anziane siano le più interessate al mio seno è per me un mistero che rimarrà tale).
Questa è solo la mia esperienza. Cosa insegna? Un bel niente. Se una madre vuole allattare fino ai 3 anni di età (dopo devo ammettere che griderei anch’io all’abuso psicologico) o nemmeno iniziare, per me va bene lo stesso. Se qualcuna è stata bandita da un bar o da un ristorante perché allattava al seno può contare su di me per un boicottaggio.
Se dovessi trovare una morale, direi solo che potremmo iniziare a considerare l’allattamento – e la maternità tutta – come qualcosa di normale. Non un automatismo scontato in quanto “femmine”, ma nemmeno una vocazione specialissima o un percorso a ostacoli con regole ferree da non sgarrare mai. Una cosa bella e normale, come fare un bagno in mare o una passeggiata in montagna. Magari faticosa, ma senza che “fatica” sia la prima parola che associamo all’esperienza. Soddisfazione e piacere, questo sarebbe bello e giusto provare.