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Perdere un bambino. La maternità alle prese con la paura più grande

Articolo. È arrivato il momento di affrontare il tema più terrorizzante quando si aspetta un figlio: la morte in utero. Lo facciamo nella convinzione che sia meglio informarsi rispetto a gestire una paura oscura, e che di lutto sia opportuno parlare. Per non farne un tabù e per dare dignità al dolore dei genitori. A farci da guida, Claudia Ravaldi, fondatrice dell’associazione CiaoLapo

Lettura 5 min.

Non ho mai chiamato il mio bimbo per nome fino a quando non è nato. A chi mi chiedeva la data del parto ho sempre risposto con grandi condizionali: “Dovrebbe, se tutto va bene…”. Ho comprato tutine con estrema riluttanza e preparato il meno possibile per il suo arrivo. Figuriamoci addobbare la cameretta con gusto (per i primi due anni mio figlio ha dormito accanto alla scarpiera).

La considero una forma di scaramanzia, o forse un modo per gestire l’ansia. Il fatto è che ho vissuto da vicino – anche se non in prima persona – il dramma della morte perinatale. L’ipotesi, per quanto remota, di dovermi disfare di vestitini e giochini mai usati mi risulta insostenibile.

Non so se sia la reazione più sana che si possa avere alla paura, ho dimenticato di chiederlo a Claudia Ravaldi, che da medico psichiatra e psicoterapeuta avrebbe forse potuto darmi una risposta.

Claudia ha fatto una cosa bellissima: ha trasformato il suo dolore in un progetto. Nel 2006, a fine gravidanza, ha perso suo figlio e l’ha ritrovato, in parte, fondando con il marito CiaoLapo Onlus. L’associazione si occupa delle famiglie che stanno vivendo o hanno vissuto gravidanze a rischio, diagnosi di patologia fetale dei loro bambini, e la perdita di un figlio in gravidanza e dopo la sua nascita, ma anche di formazione permanente del personale curante.

La Onlus, nata a Prato, si è allargata su tutto il territorio nazionale, e sono presenti gruppi di sostegno anche in Lombardia. Prima dell’emergenza Covid uno di questi si ritrovava presso la biblioteca di Nembro. Ora l’attività si è spostata online: chi ha necessità può contattare [email protected], risponderanno le volontarie per il primo contatto. “C’è una bella rete a Bergamo di operatori formati da noi, ringrazio in particolar modo Lidia Poli e Loredana Mauri che gestisce il lavoro con gli ospedali”, aggiunge Claudia Ravaldi.

Parliamo del corpo

Quando si parla di dolore si rischia sempre di essere troppo cerebrali, ma la gravidanza è innanzi tutto un fatto fisico (come ho provato a raccontare qui) e anche la morte lo è. Quindi è importante dare qualche indicazione più precisa.

I medici parlano di aborto nella prima metà della gravidanza e di morte in utero nella seconda metà della gravidanza. La morte perinatale comprende fino alla prima settimana di vita del neonato. “L’aborto di solito ha come cause fattori genetici o infettivi; in caso di morte in utero si tratta soprattutto di fattori metabolici e circolatori”, spiega Claudia Ravaldi. I numeri sono molto diversi: “Gli aborti spontanei in Italia sono circa 100 al giorno. Invece i nati morti sono 1.500 l’anno, cioè circa 2,8 bimbi su mille”, spiega la dottoressa.

Una grande differenza, a livello fisico, la fa la necessità di dovere o meno affrontare un parto. Nel caso di un aborto nel primo trimestre basta un raschiamento, dopo la tredicesima settimana il feto va partorito. “L’impegno fisico, via via che la gravidanza volge al termine, aumenta per la donna. Ma non è detto che partorire a 14 settimane sia più semplice che farlo a fine gravidanza. Io ho affrontato la morte in un utero a 38 settimane, e il dolore è stato simile a quello degli altri miei parti – racconta la dottoressa – Dalle testimonianze che abbiamo raccolto, invece, partorire un feto morto di poche settimane può dare luogo a travagli lunghissimi, perché l’utero non ha finito di maturare”.

Il diritto al lutto

Ho sempre pensato che perdere un bambino al momento del parto, per non dire nei primi giorni di vita, fosse molto peggio di un aborto spontaneo, magari senza necessità di andare in ospedale. Credo ancora che per me farebbe la differenza, eppure la dottoressa mi mette in guardia: “Il lutto ha una dimensione antropologica e culturale forte. Va sempre data la possibilità di elaborare il dolore. In caso contrario, una donna che ha un aborto spontaneo, magari giovane o già con altri figli, può convincersi che sia sbagliato stare male. Molte pensano di essere deboli, ma soffrire è una reazione naturale. Spesso fanno buon viso alla situazione e sono ad alto funzionamento: lavorano, escono, fanno la stessa vita di prima. Un lutto non risolto, però, rischia di diventare una patologia e portare a depressione, disturbo del comportamento alimentare, dipendenza da tranquillanti”.

Il lutto fisiologico ha una durata di 4-6 mesi per l’aborto spontaneo ed è consigliabile attendere 6 mesi prima di una nuova gravidanza. Serve per rimettersi in asse. Il rischio è anche quello di portare un carico di ansia e angoscia nella gravidanza successiva, e di trasmetterlo ai futuri figli. Per questo CiaoLapo vuole offrire una rete di sostegno ai genitori che perdono un bambino, in qualunque fase della gravidanza: “Ognuno reagisce con i suoi strumenti: la preghiera, lo yoga, la psicoterapia, un gruppo di sostegno. Purtroppo si crede molto nella riservatezza del lutto, invece è necessario non sentirsi soli e disporre di tutte le informazioni per poi decidere come fare”, spiega Claudia Ravaldi.

La tegola in testa

Una reazione piuttosto comprensibile è il senso di colpa per non avere saputo “proteggere” il proprio figlio. Eppure, spesso, è completamente immotivata. Di solito, nel caso di perdita durante il primo trimestre non si fanno approfondimenti specifici, a meno che non ci siano fattori di rischio noti, come ipertensione, diabete, sovrappeso.

Se parliamo di morti in utero qualcosa in più si potrebbe fare – commenta la dottoressa – Possiamo puntare ad avere i tassi dei Paesi del Nord Europa, cioè 2 su mille. Si può intervenire sui fattori di rischio, come il controllo della glicemia e il tipo di dieta. Potrei ricordare anche di non fumare o assumere alcol in gravidanza, ma la verità è che in Italia sono comportamenti davvero poco diffusi. Anche addormentarsi di lato è una buona abitudine, così come prestare attenzione ai movimenti del bambino. In secondo luogo, in caso di morte in utero, è molto importante effettuare un riscontro diagnostico per capire cosa è andato male”.

Ma non tutto si può controllare: il distacco della placenta o la malformazione del cordone ombelicale non sono prevedibili. È un pensiero che può mettere ansia, ma che personalmente trovo liberatorio: non tutto è sotto la nostra responsabilità. È come la famosa tegola, che può cadere anche sulla testa della persona più prudente e virtuosa.

Pensiamo a ciò che possiamo fare e lasciamo il resto in secondo piano – consiglia Claudia Ravaldi – Avere paura della morte in utero non riduce il tasso di morte in utero. Da genitori, non possiamo controllare tutto o rimediare a tutto. Ci siamo dimenticati che la medicina non è onnipotente”.

Come affrontare la diagnosi

Si può scoprire di avere perso il bambino o a seguito di un sanguinamento in atto o durante un controllo, magari nel corso di una visita di routine. “Spetta al ginecologo fare la diagnosi e dare le prime spiegazioni – racconta Claudia Ravaldi – La diagnosi va saputa dare, senza nascondere nulla e senza indifferenza. Spesso la prima reazione è la negazione. L’ospedale dovrebbe essere in grado di stare vicino alla donna e indirizzarla sui passi successivi”.

La parte successiva è il parto: “Se non ci sono situazioni di emergenza è bene dare alla coppia un margine di 12-24 ore per organizzarsi. Si può procedere al ricovero e indurre il parto o scegliere di tornare a casa per sistemare le proprie cose e dare la notizia ai nonni. Molti ospedali lasciano stanze singole alla coppia, evitando che si trovino a contatto con altre mamme o bambini. Il travaglio parte meglio in un clima di fiducia e appropriatezza: il corpo va onorato, deve tornare al meglio delle sue possibilità. L’ideale è avere a disposizione un’ostetrica per tutta la durata”.

Ma non sarebbe meno traumatico un cesareo, rispetto a partorire naturalmente un bambino che si sa già essere morto? “L’indicazione è il parto naturale, perché si recupera prima – spiega la dottoressa – Inoltre è più facile, a posteriori, rimpiangere il cesareo che il parto naturale. In ogni caso va consentita la libera scelta”.

Il lutto senza il trauma

Se si lavora bene sulla comunicazione, il dopo è sempre triste, ma prepararsi al funerale o all’autopsia diventa parte di un percorso di cura – spiega la dottoressa – Avere la possibilità di raccogliere i propri ricordi, tenere il bimbo in braccio, aiuta a dovere gestire solo il lutto e non il trauma. È la stessa differenza che c’è fra perdere un proprio caro potendogli tenere la mano o sapere che è morto solo, come è accaduto a tanti anziani durante il Covid. Con CiaoLapo vogliamo proprio evitare questo”.

Infine, una parola per i papà, che troppo spesso sono visti come un semplici supporter: “Mi chiedono tutti come sta mia moglie, nessuno mi chiede come sto io”, commentano i più. Anche loro, però, devono potere avere accesso alle informazioni giuste: “I papà si trovano in sospeso, ed è il motivo per cui ci battiamo per l’accesso dei padri al supporto psicologico, da offrire a entrambi i genitori – spiega la dottoressa – Le mamme spesso hanno bisogno di parlare, i papà di reagire e mettere in qualche modo a frutto la loro progettualità. Tenerli all’oscuro è una cattiveria, direi una violenza di genere”.

Il 15 ottobre è la giornata mondiale dedicata alla sensibilizzazione del lutto perinatale.

Associazione CiaoLapo Onlus

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