Fosse stato per me sola, non credo avrei mai avuto il coraggio di fare figli. C’è chi ha la vocazione, io no. Non avevo neanche forti motivazioni contrarie, ero solo dubbiosa. Ho sempre grosse difficoltà a decidere qualsiasi cosa: una volta sono rimasta dieci minuti nella corsia di un supermercato tentennando tra la passata di pomodoro rustica e quella liscia, figuriamoci quando devo scegliere se mettere o meno al mondo qualcuno. Perciò ho preferito dire a mio marito: “Fai tu”. Lui di figli ne ha sempre voluti, con una visione semplice e ottimista che trovo molto confortante.
Ribaltando una celebre frase fatta: dietro una grande mamma (non io) c’è spesso un grande papà. O meglio, dietro una madre sufficientemente buona c’è un padre che si arrabatta con lei. (Non sempre, lo so: la mia massima stima ai genitori single ambosesso).
Primo passo: la scelta
Tra i milioni di luoghi comuni che rendono tossica la narrazione della maternità (come ho provato a raccontare qui), quello che l’avere un figlio sia un’esigenza principalmente femminile. O, peggio ancora mi sento, che spetti alla donna convincere l’uomo.
Le possibilità sono diverse. Lo scenario più semplice è quello di una coppia stabile, nella quale entrambi sappiano chiaramente di volere o non volere bambini. C’è poi l’eventualità che uno lo voglia e l’altro no, un dissidio difficilmente sanabile (si può “cedere” su una cosa simile?). Ci sono i casi delle coppie confuse. Ne conosco molte che, invece di provare a chiarirsi, evitano l’argomento, rifugiandosi nei non detti. A volte si cambia idea, a volte si cambia partner. Ci sono i figli pianificati, come sempre più accade fra noi maturi (in senso anagrafico) trentenni e quarantenni, ma anche i figli capitati e non per questo meno amati. La decisione se provare o meno ad avere un bebè non è sempre così lineare, soprattutto oggi che i bambini sono pochi e non è scontato averne.
Ho sempre trovato molto rassicurante che il mio compagno volesse diventare padre più nitidamente di quanto io volessi diventare madre. Non mi ha “convinta”, sono io che ho scelto di fidarmi del suo istinto. E mi sono fidata perché ho sempre saputo che lui avrebbe fatto la sua parte.
Per ragioni biologiche e culturali, è difficile che una mamma possa esimersi dal suo ruolo e scampare alle sue responsabilità, mentre è più facile che lo possa fare un padre. In altre parole: la gravidanza, il parto, l’allattamento (se al seno) e la cura nei primissimi mesi passano forzatamente da mani femminili. Senza un padre convinto di volere fare il padre è tutto molto ma molto più duro.
Il personale è politico
Ricordo la prima notte con il neonato a casa. La culla era dal mio lato del letto, e mio marito continuava a sporgersi per controllare che il bambino respirasse. Abbiamo invertito il posto della culla. Da allora, si è sempre svegliato più spesso lui per stare con il bebè, “passandomelo” solo se riteneva che avesse fame.
La nostra suddivisione dei compiti è stata da subito piuttosto paritaria, in modo naturale. Senza bilancino in mano, ma più secondo il principio “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Non una condizione perfetta o idilliaca, ma ragionevolmente condivisa, anche se come tutti i neogenitori ci siamo spesso rinfacciati di avere dormito meno ore o cambiato più pannolini dell’altro.
Il modo di vivere la genitorialità non resta confinato alle mura domestiche, ma ha per ovvie ragioni dei riflessi “pubblici”. Se una donna si occupa dei figli molto più di un uomo (scelta che non mi sogno affatto di contestare, purché non venga fatta passare come “naturale” o l’unica possibile) questo ha delle conseguenze anche al di fuori della famiglia: il suo lavoro sarà meno importante e più sacrificabile, avrà meno indipendenza economica, meno peso sociale, meno rappresentanza politica.
Viceversa, anche un uomo che si occupa attivamente dei figli genera conseguenze politiche: si farà promotore di un maggiore equilibrio casa-lavoro, perché difficilmente potrà permettersi di passare tutti i giorni 12 ore fuori casa (fra parentesi, ci tengo a ricordare che la conciliazione fra i tempi del lavoro e quelli personali è un problema non solo per i genitori, ma per chiunque voglia avere una vita oltre l’ufficio). Porterà più equità, più attenzione alle tematiche legate alla famiglia e – oserei dire – più natalità.
Da breadwinner a “mammo”
Il “breadwinner”, colui che porta il pane a casa, indica il “capofamiglia” che si occupa del sostentamento familiare. È il tradizionale compito dell’uomo, mentre la donna si occupa del focolare.
Che ora per procacciarsi il sostentamento sia necessario essere in due è un dato di fatto, almeno per l’impoverito ceto medio di cui faccio parte. Noi donne moderne lavoriamo – quando troviamo lavoro – perché abbiamo studiato, miriamo a essere indipendenti e magari abbiamo anche qualche ambizione, ma soprattutto perché dobbiamo. Quindi, anche se a volte ne faremmo pure a meno, scalziamo l’uomo dal suo ruolo di unico “breadwinner” all’interno della famiglia.
Ma la mentalità cambia meno velocemente dei processi sociali, e che il compito principale dell’uomo sia quello di “portare i soldi a casa” è una credenza dura a morire. I padri che si occupano attivamente dei figli – magari perché hanno mogli più “breadwinner” di loro – sono definiti spesso con l’abominevole termine di “mammo”.
Ricordo con tenerezza divertita quando mio marito descrisse minuziosamente sui social la tecnica perfetta che aveva escogitato per fare addormentare nostro figlio: dove posizionare il ciuccio, come tenere il bambino, quali mosse eseguire (ve la rivelerei, ma la verità è che non funziona). Ricordo con ancora più tenerezza gli altri neo padri suoi amici che chiedevano numi e chiarimenti, scambiandosi pareri. Ricordo con meno tenerezza il tale (anzi: la tale) che, in privato, gli consigliò di non parlare di certe cose perché ci faceva una brutta figura e sembrava non fosse abbastanza concentrato sul lavoro. Non abbastanza “breadwinner”, troppo “mammo”.
Resistere resistere resistere
Sto scrivendo queste righe mentre mio marito è alla scuola dell’infanzia di nostro figlio, unico padre della classe a occuparsi dell’inserimento. Ha preso una settimana di ferie apposta (anche se sospetto lo abbia fatto anche per seguire i play off Nba). Dice di avere un bellissimo ricordo della sua esperienza all’asilo ed è contento di rivivere certi momenti. Io, invece, alla scuola dell’infanzia mi annoiavo a morte e probabilmente mi annoierei anche adesso.
Non è un padre militante, il padre di mio figlio. Non si vanta perché cambia un pannolino (anche perché ne ha cambiati il meno possibile, credo sia il compito che detesta di più), non impartisce lezioni di pedagogia, non è sempre felice di stare con il bambino. Spesso non si sente all’altezza, “Immaginavo che sarei stato un padre migliore”, ripete. Io, che l’inadeguatezza genitoriale non so nemmeno cosa sia, gli dico che va benissimo così.
Non dev’essere semplice essere padri oggi, ora che i vecchi schemi sono crollati e non ci si può più riconoscere nel ruolo del pater familias. Mentre le donne hanno almeno la fortuna di essere abituate a riflettere sulla “questione femminile”, l’uomo non è solito fare altrettanto. Il sessismo nei confronti degli uomini, e dei padri, è più insidioso di quello che colpisce le donne e le madri. Succede ogni volta che in un padre che si prende cura dei suoi figli vediamo un tenero pasticcione, un inadeguato rimpiazzo della madre, un “mammo”. Un padre è un padre, il suo contributo educativo non si sostituisce.
Il suo ruolo – se sceglie di essere un padre attivo – non è più solo quello di portare la domenica il figlio alla partita o di impartire lezioni di vita. Imparerà anche a placare un capriccio, a consolare un pianto, ad alzarsi la notte perché il bambino lo cerca (i bimbi abituati alla presenza di entrambi i genitori chiamano indifferentemente il papà e la mamma), saprà come provare la febbre o somministrare un antibiotico, e ripeterà per la milionesima volta i versi di tutti gli animali, compreso il cacatua. Condividere gli oneri permette di condividere gli onori, ed essere realmente partecipi della meraviglia di vedere crescere un figlio. È anche un gesto politico, che contribuisce a plasmare la società in una certa direzione, più di mille proclami.