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Maternità: riprendiamoci il corpo, anche durante il parto

Articolo. Le donne sanno partorire ed i bambini sanno nascere”, dice una celebre frase del medico e ostetrico Michel Odent. Eppure il parto è visto oggi come un evento prettamente medico, percezione ancora più accentuata in tempo di Covid. È possibile cambiare le cose? Il secondo episodio della serie dedicata al diventare madri

Lettura 5 min.

“Volevo solo chiudere le gambe e andarmene via”, mi ha raccontato di avere pensato Elisa, al termine del suo primo parto. Aveva già la sua bambina fra le braccia, ma questo non bastava a scacciare il trauma di quello che aveva appena subito. Anch’io – e non ho avuto un parto con particolari complicanze – ho preso in braccio il mio bambino quasi per forza, mentre volevo solo dimenticare tutto e dormire. Quando l’ostetrica mi ha detto che c’era ancora la placenta da espellere (operazione in sé semplicissima) ho avuto una crisi: non potevo credere che qualcuno mi chiedesse di fare ancora qualcosa. Basta: sedatemi. Al risveglio stavo molto meglio.

Comincio da qui per sfatare il primo mito del parto: quello secondo il quale, una volta che il bebè è uscito e sta bene, si venga travolte dalla felicità e si dimentichi tutto. Io non ho dimenticato niente.

Ma prima, una necessaria premessa: qualunque racconto di parto è solo il racconto di quello specifico parto. Quindi non deve avere pretese di universalità. È pieno il mondo di donne che, appena partorito, stanno abbastanza bene da bearsi della loro creatura. Credo, anzi, che siano la maggioranza. Semplicemente non rappresentano la totalità delle esperienze possibili. Perciò fatemi dare subito l’unico consiglio che mai darò a una qualsiasi futura madre: ascoltare tutti, ma non dare retta ciecamente a nessuno. Possiamo lottare insieme perché alcune cose – nel modo di gestire il parto, ad esempio – migliorino per tutte noi, ma la nostra esperienza individuale rimane sempre personalissima.

I racconti del parto

Noi donne, specie quando siamo in gravidanza o comunque ipotizziamo di potere avere un bambino, collezioniamo i racconti di parto delle amiche o dei blog come fossero caramelle. Non ce ne saziamo mai, e vogliamo i dettagli più cruenti, come adolescenti davanti a un film horror. Così feci io, incinta al settimo mese, con la mia amica Elisa. Un parto fisiologico, in un famoso ospedale milanese, che però si stava protraendo troppo a lungo. Qui il racconto di Elisa si fece confuso, e io non ho cuore di richiamarla adesso per chiederle conferma dei dettagli. Mi parlò di un “uncino” usato per estrarre il feto (forse una ventosa? O un forcipe?), di un’operazione lancinante cui nessuno l’aveva preparata, mentre l’ostetrica la scherniva per la sua bassa sopportazione del dolore.

Anche la mia amica Sara, a Bergamo stavolta, ebbe una cattiva esperienza con un’ostetrica della vecchia guardia, che la colpevolizzò per avere scelto l’epidurale: “Ah, queste donne che non vogliono soffrire”. Insinuò che fosse colpa sua se il parto non procedeva spedito: “Vogliamo cagarla fuori questa bambina oppure no?”. Parole testuali che mi sono rimaste molto impresse.

Perciò, quando toccò a me finire in sala travaglio, ero preparata a litigare furiosamente con chiunque avesse osato mancarmi di rispetto. Cosa che non servì a nulla, dato che la mia giovane ostetrica si rivelò positiva, calma, oserei dire mansueta. Alla terza ora di spinte, senza apprezzabili progressi, mi ripeteva “Va tutto bene, un primo parto in analgesia è normale sia lungo”. Poi intervenne la ginecologa, robuste dosi di ossitocina per accelerare il tutto, toni più sbrigativi, spinte convulse e sempre sbagliando (non ho ancora capito quale sia la tecnica giusta), la promessa di un “aiuto” nel caso non mi fossi sbloccata. Parole che mi terrorizzarono, ma per fortuna non fu necessario applicare nessuna ventosa (un’operazione forse non così traumatica, ma che sono contenta di avere evitato). Quando mi dissero che mancava poco non potevo crederci: come tutte, temevo stessero mentendo per darmi coraggio.

La violenza ostetrica

In Italia si è cominciato a parlare diffusamente di “violenza ostetrica” nel 2017, con la campagna #Bastatacere. Le madri hanno iniziato a condividere pubblicamente i loro racconti di parto, e le conseguenze a lungo termine che ne hanno riportato. Denunciano di essere state abbandonate a loro stesse e, al contempo, di avere avuto forti pressioni per accelerare il parto, con l’abuso di episiotomie (operazione che consiste nell’incisione chirurgica del perineo per allargare l’apertura vaginale) e manovre di Kristeller (che consiste nella pressione addominale dall’alto da parte dell’operatore per favorire l’espulsione). Umiliazioni, mancanza di riservatezza, rifiuto di fornire un’adeguata terapia del dolore, trascuratezze e abusi di vario genere.

Per orientarmi meglio, ho chiesto aiuto alla ginecologa Sandra Morano, professoressa all’Università di Genova, da sempre impegnata contro l’abuso dei tagli cesarei e per una medicina “al femminile”: “Il corpo appartiene alla donna, non all’ostetrica o al medico. L’esperto deve guidare, ma non esautorare la partoriente. In un parto fisiologico la donna partorisce da sola, chi le sta vicino deve aiutarla con discrezione, creando l’ambiente adatto perché tutto avvenga nel migliore dei modi possibili. Senza medicalizzazione, perché il parto è un evento naturale. Solo in caso di deviazioni dalla norma, quando è necessario il ricorso a livelli più intensivi di cure, è indicato l’intervento di uno specialista”. In sintesi, le donne hanno competenza procreativa e devono essere libere di prendere alcune decisioni: dove partorire, da chi farsi accompagnare, quale metodo di attenuazione del dolore scegliere, quali posizioni adottare.

Questo non vuol dire che l’esperienza del parto possa essere indolore, e nemmeno che debba essere banalizzata perché “Tanto è una cosa naturale”. “Ma tutta l’esperienza del parto non può essere ridotta al solo dolore – aggiunge la dottoressa Morano – Così come la gravidanza è una trasformazione graduale, anche il parto lo è e prevede delle pause fisiologiche. Non esistono parti di 48 ore: il travaglio, inteso come fase dilatatoria ed espulsiva, non dura più di 12 ore, normalmente la metà. Non è una ‘passeggiata’, ma nemmeno quell’ esperienza che viene descritta e introiettata come terribile”.

Stress emotivo e burnout

Non vorrei che questi racconti inducessero a guardare con sospetto le ostetriche, persone che fanno un lavoro bello e durissimo, spesso con vera vocazione.

Il giorno dopo il parto continuavo a pensare alla giovane professionista che mi aveva seguito. La mia domanda ricorrente era: “Ma come fa a fare questa cosa tutti i giorni?”. Sapevo che non era l’ostetrica ad aver partorito, ma sapevo anche – lo sentivo – che era stata sottoposta a uno stress emotivo non indifferente. “Io ho assistito a tanti parti – racconta la dottoressa Morano – e molte volte risentivo i dolori del parto come li avevo vissuti io, ricordare i ritmi del travaglio è utile per entrare in empatia con le partorienti: so esattamente cosa hanno provato”.

Turni su 24 ore, stretto contatto con persone alterate (partorienti, ma anche accompagnatori), talvolta scarsa valorizzazione del proprio lavoro. Non mi sorprende che le ostetriche siano una categoria professionale a rischio burnout, cioè un esaurimento emotivo, tipico delle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate.

Il parto durante Covid

L’inizio e la fine della vita sono momenti sacri a tutti, e dovrebbero sempre essere tutelati. Travolti dall’emergenza Covid sono accaduti fatti terribili, in particolare nei primi mesi dell’epidemia. Molti di noi portano il peso, irrimediabile, di avere dovuto lasciare i propri anziani da soli nei loro ultimi giorni. Una cosa che non deve succedere mai più.

Così come non deve accadere più che una donna partorisca in isolamento. Non adesso che si può evitare, mantenendo standard di sicurezza adeguati. “La situazione negli ospedali italiani è a macchia di leopardo, in alcuni il padre non può mai entrare, in altri sì ma solo nella fase finale del parto, previo tampone negativo – spiega la dottoressa Morano – C’è chi ha pensato di risolvere il problema permettendo l’uso di tablet in sala travaglio. La cosa più eclatante, in tutta Europa, è stato il completo isolamento della donna: lasciata sola alla porta dell’ospedale, senza nemmeno potere vedere il volto degli operatori sanitari, a loro volta in difficoltà, totalmente bardati”.

Altro capitolo doloroso l’allattamento, dato che è impossibile il rooming-in (la permanenza del neonato nella stanza della madre, ndr) in caso di camere condivise. All’inizio la situazione era così difficile anche per l’incertezza sulla possibilità di contagio attraverso il latte materno. Nel dubbio si sono estese le restrizioni e questo ha avuto effetti negativi sull’attaccamento precoce. “Ora stiamo cercando di tornare a una certa normalità, sempre con grande prudenza. Ma chi partorisce non deve più sentirsi come se fosse nel mezzo di una guerra. I primi diritti che saltano sono quelli considerati accessori e troppo spesso quelli della madre sono considerati tali”.

A maggior ragione, vale la pena informarsi prima il più possibile riguardo all’ospedale dove si sceglie di partorire e fare sentire la propria voce. Riprendiamoci il diritto di essere seguite in sicurezza, consapevoli e fiduciose nelle nostre competenze procreative e nelle risposte del nostro corpo.

(illustrazioni Tanya Antusenok)

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