Se dicessi che odio i disabili, gli anziani, le persone di una certa etnia o grasse o con i capelli rossi verrei giustamente bollata come razzista, o meglio ancora come cretina. Se mi vantassi di discriminare attivamente queste persone in base ai miei gusti o convinzioni sarei biasimata, censurata, condannata. Eppure chiunque può permettersi di dire di «odiare i bambini» e pretendere di non averci mai a che fare, neanche per sbaglio.
Fra i trend social più seguiti di quest’estate: lamentarsi dei bambini in aereo. Piangono, disturbano, sono maleducati, i genitori se ne fregano e non sanno gestirli, che bisogno c’è di portarli? Ci sono fior di content creator che hanno realizzato video denunciando pianti ininterrotti, class action per creare voli child free, utenti inferociti perché «Il bambino è tuo e te lo sopporti tu». Il tema è variamente ampliabile: perché fare mangiare i bambini al ristorante? Davvero dovete portarveli dietro al supermercato? Non potete stare a casa o pagare una babysitter? Che li avete fatti a fare?
Dire «odio i bambini» è così socialmente accettato che non ci facciamo neanche più caso. La nostra reazione di genitori è quella di scusarci, dire che i nostri figli non sono come gli altri, piuttosto che mandare semplicemente al diavolo chi fa commenti intolleranti e irrispettosi. Da dove nasce questo odio, questa intolleranza?
Nessuno vuole costringervi ad «amare» i bambini
Forse bisognerebbe sgombrare il campo da un equivoco: noi genitori “medi” non pensiamo che il mondo debba restare in adorazione dei nostri pargoli, e nemmeno che – siccome abbiamo fatto figli noi – sia una scelta “giusta” che debbano fare tutti. Non ci aspettiamo aiuto, non pensiamo che ogni donna debba manifestare spirito materno e soprattutto non giudichiamo chi i figli non li ha o non li vuole. Va benissimo non amare i bambini, essere in difficoltà ad averci a che fare, oppure amarli ma non volersene occupare, o amarli ma non sopportarli (queste ultime opzioni sono spesso vissute, a fasi alterne, anche dagli stessi genitori).
Ma «odiare i bambini» che senso ha? I bambini sono persone umane, e tutti siamo stati bambini, anche se non ce lo ricordiamo. Odiare i bambini è una frase usata spesso con sbarazzino cinismo, ma che nasconde una stolidità spaventosa, una superficialità senza confini. Il bello è quando la persona che la pronuncia si sente trasgressiva (pur essendo la decimilionesima persona a dire la stessa banalità), emancipata (scambiando la libertà di scelta con l’odio per i bambini) o peggio ancora “provocatoria” (cosa dovete provocare? Una dermatite da stress?). Dire «odio i bambini» non è come dire «ho scelto di non averne» o «non sono a mio agio con i bimbi piccoli» o «non riuscirei mai fare la maestra dell’asilo», è una frase che trasuda intolleranza, stupidità, pregiudizio.
I bambini sono cittadini portatori di diritti come tutti
Se dovessi rispondere alla domanda iniziale: «Che bisogno c’è di portare i bambini in aereo, al ristorante, al supermercato?» risponderei semplicemente che i bambini esistono, anche se sono sempre di meno. Esistono e quindi possono avere nonni da andare a trovare in altri Paesi, genitori che non vogliono pagare la babysitter ogni volta che escono di casa, bisogno di fare la spesa perché hanno finito i pannolini o la passata di pomodoro. Esistono e quindi possono calpestare il suolo pubblico, camminare per strada, andare al mare o in montagna, a comprare il pane o dal dentista. Esistono anche al di fuori della loro cameretta, dei giardinetti e dell’asilo. Esistono e sono cittadini portatori di diritti come tutti, non solo un “problema” dei loro genitori.
Esercitare la tolleranza
Capita che i bambini “diano fastidio”? Certo. Come capita che dia fastidio l’anziano che in fila alla cassa del supermercato ci mette tre minuti invece di tre secondi a pagare, perché cerca le monetine nel borsellino. Come il pedone che non è abbastanza veloce ad attraversare le strisce pedonali mentre noi abbiamo fretta, come il vicino di posto che occupa tutto il bracciolo o il cliente del bar che compra l’ultima brioche alla crema. Se non riusciamo a gestire un normale, minimo, livello di frustrazione la responsabilità non è degli altri, ma nostra. Un bambino che piange o che fa un capriccio non è un cataclisma, rientra nel normale ordine delle cose.
Ormai c’è una difficoltà estrema a distinguere fra ciò che è “maleducazione” e ciò che non lo è, perché la maggior parte degli adulti non ha nessuna nozione non dico di pedagogia, ma di elementare fisiologia. Un bambino che schiamazza in un parco giochi è maleducato? No, sta solo facendo il bambino. Un bambino che fa una scenata in un negozio perché la mamma non gli compra le caramelle è maleducato? No, è proprio il contrario: la madre lo sta educando al fatto che non può avere subito tutto ciò che vuole. Un neonato che urla in aereo è maleducato? No, sta esprimendo un disagio nell’unico modo in cui può farlo.
«Ma infatti la colpa è dei genitori»
È la stessa cosa che si dice quando si inciampa in una cacca di cane: «La colpa è dei padroni». Se c’è una cosa che a noi genitori non manca mai sono i suggerimenti, o meglio le direttive, su come dovremmo comportarci. Se un bambino si “comporta male” è logico che la colpa sia nostra, perché sbagliamo sempre. E noi spieghiamo, ci giustifichiamo.
Che bisogno c’è di portare un neonato in aereo? Io potrei rispondere che quel neonato è il figlio di un expat che fa ricercatore a Londra perché in Italia sopravviveva a malapena, e però vuole fare conoscere il bambino alla famiglia, e ha messo in atto tutti trucchi per rendere il viaggio il più possibile piacevole per il bebè e gli altri passeggeri. Ma sapete che c’è? Mi sono stancata di sentirmi in difetto in quanto genitore. Quello magari è il figlio di un’influencer cafona che vuole andare a Dubai per un servizio fotografico e, pensate un po’, ha esattamente lo stesso diritto di viaggiare di chiunque altro abbia comprato un biglietto aereo.
Se poi il bambino, diventato ragazzino, ha comportamenti effettivamente maleducati (prende a calci il nostro sedile, ci tira i capelli, ascolta i Me contro te al massimo volume) chiederemo al genitore o al personale di bordo di prendere provvedimenti. Esattamente come chiederemmo al vicino adulto che ascolta la musica senza cuffiette di infilarsele senza indugio, perché la maleducazione è anagraficamente trasversale.
Sapete cosa invece non serve a niente? I commenti acidi, le frasette a mezza voce, gli sguardi di riprovazione, la colpevolizzazione del genitore. L’altra cosa che non ci serve sono i consigli dati un tanto al chilo. L’unica cosa che a noi genitori servirebbe “un tanto al chilo” è una mano, del tempo in più per curare i nostri figli, dei servizi per la famiglia degni di questo nome. Meno odio e più gentilezza, o almeno elementare cortesia.