93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

La società evolve, perché il calendario scolastico no?

Articolo. La distribuzione dei giorni di vacanza in Italia è legata ai ritmi del raccolto, per permettere ai bimbi di aiutare la famiglia partecipando alla mietitura. Un’idea che 80 anni fa era all’avanguardia, e ha consentito di frequentare la scuola anche ai figli dei contadini. Ora è semplicemente anacronistica, fuori da ogni logica, però non si cambia. E non si capisce il perché

Lettura 4 min.
Una colonia fluviale a Brembate Sopra, anni Cinquanta (Archivio L’Eco di Bergamo)

Quest’anno, per poter lavorare, io e mio marito spendiamo mille euro in centri estivi. Siamo ancora fortunati: il figlio grande è all’ultimo anno di scuola dell’infanzia, e quindi ha frequentato l’intero mese di giugno. La piccola va al nido, e l’abbiamo potuta mandare anche a luglio (pagando, ovviamente). Ci teniamo le ferie per agosto – mese dove tutto è più caro e affollato – perché andare in vacanza in altri periodi significherebbe rinunciare a giorni preziosi di aiuto con i bambini.

Il prossimo anno spenderemo decisamente di più, perché agli inizi di giugno la scuola primaria finisce e non riprende fino a settembre inoltrato.

Metterci una pezza

Mediamente, le ferie che spettano ogni anno al lavoratore dipendente sono cinque settimane, generalmente corrispondenti a 26 giornate lavorative. I giorni di vacanze scolastiche sono 120. C’è un’incongruenza evidente, che però chi amministra la cosa pubblica non considera, nella convinzione che le famiglie, in qualche modo, ci metteranno una pezza.

In cosa consiste questa pezza? Facendo un rapido sunto, in ordine decrescente di desiderabilità: nonni in buona salute, possibilmente con case al mare (avercene); stipendi spesi in babysitter e centri estivi (quello dove andiamo noi è uno dei più economici, per quelli sofisticati parte circa il doppio); genitori che rinunciano a prendere le ferie insieme per alternarsi nella cura dei bambini; genitori (leggasi: mamme) che – già provati dalla scarsità di asili nido, servizi per l’infanzia, strumenti per conciliare vita professionale e familiare – rinunciano al lavoro, con tutto ciò che ne consegue; bambini e ragazzini lasciati soli a casa fra tv e smartphone , nel più completo deserto educativo.

Un amplificatore di diseguaglianze

Leggendo l’elenco salta agli occhi una cosa: chi si salva è perché ha le risorse (economiche e di rete familiare e sociale) per salvarsi. Per i bambini provenienti da famiglie in difficoltà, l’estate è un buco nero. Tre mesi senza scuola sono un amplificatore di differenze sociali, dove i figli dei ricchi vanno in vacanza e fanno esperienze costruttive, i figli della classe media si arrabattano come possono; i figli dei meno abbienti sudano e sono allo sbando.

Nel dopoguerra, quando venne pensato il calendario scolastico, non era così. Quella scuola, che rispettava i tempi del raccolto, era inclusiva, per davvero. Lo spiega bene qui Raffaella Saporito, professoressa alla Bocconi. La lunga pausa estiva permetteva ai figli dei contadini di essere scolarizzati, perché avevano il tempo di partecipare ai lavori nei campi, dalla mietitura fino a buona parte della vendemmia. Chi non proveniva da una famiglia contadina aveva comunque, come minimo, la mamma casalinga e una moltitudine di coetanei con cui giocare, senza bisogno di centri estivi a pagamento. Mio padre, che era figlio di un maestro elementare, passava tre o quattro mesi in villeggiatura in campagna con i suoi fratelli, una pletora di cugini e i figli dei contadini.

Sì, ma il caldo

Ci sono ragioni storiche e culturali per cui il nostro calendario scolastico è strutturato in questo modo, dalle quali non riusciamo ad affrancarci. Il caldo c’entra poco. E mi viene da ridere quando qualcuno obietta: «Sì, ma già a giugno fa troppo caldo per andare a scuola» e poi in quelle stesse identiche scuole organizzano i centri estivi, a pagamento.

Se fa caldo si progettano le scuole in modo che faccia meno caldo, con sistemi di aerazione adeguati, alberi nei giardini, tende e finestre che siano realmente isolanti. Si fa lezione in giardino e nei parchi cittadini. Non serve per forza l’aria condizionata, che peraltro molti in casa (me compresa) non hanno.

«Sì, ma i bambini sono stanchi» è l’altra obiezione. I bambini sono stanchi perché sono sottoposti a ritmi massacranti e l’ultima pausa lunga che hanno fatto è stata a Natale. Con ritmi più distesi arriverebbero a giugno più tranquilli, senza che le loro conquiste in termini di istruzione venissero compromesse da una pausa estiva di tre mesi.

Il «Summer Learning Loss»

Si parla di «Learning Loss» per definire un divario di competenze e conoscenze tra i livelli registrati precedentemente a una interruzione scolastica e gli esiti di apprendimento degli allievi dopo periodi di lunghe vacanze come la pausa estiva («Summer Learning Loss»).

Uno studio statunitense che ha sistematizzato 39 ricerche sul «Summer Learning Loss» ha concluso che: in media gli studenti perdono l’equivalente di un mese di apprendimento durante la pausa estiva, gli effetti sono più evidenti per quanto riguarda le competenze matematiche, la componente socioeconomica influisce sui risultati conseguiti. Che sorpresa: i ragazzi più fragili dal punto di vista socioeconomico – per i quali la scuola è l’unica risorsa educative, l’unico posto dove trovare libri e ricevere un’istruzione – sono più soggetti alla perdita di competenze se la scuola non c’è. Come già detto: l’estate è un catalizzatore di diseguaglianze.

Anche per questo, copiando quello che si fa negli altri Paesi europei, servirebbero pause più frequenti durante l’anno scolastico e una riduzione della durata della pausa estiva.

Esigenze dei bambini, esigenze del lavoro

Io non credo che la scuola debba ricalcare l’orario lavorativo, non sarebbe giusto dal punto di vista pedagogico e didattico. Anche perché, per coprire le esigenze di tutti i lavoratori, servirebbe una scuola aperta 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno.

Ma la pausa estiva di tre mesi non fa bene né al lavoro, né alle famiglie, né ai bambini. È un’istituzione inveterata, che sarebbe ora di scardinare perché non serve a nessuno. Sogno una scuola che finisca il 30 giugno – come quella dell’infanzia, non è impossibile! – e riprenda puntuale, con tutti gli insegnanti al loro posto (nomine già fatte, classi già assegnate), il primo settembre. Due mesi sarebbero comunque tanti, ma leggermente più gestibili per le famiglie.

Periodi di stacco più frequenti durante l’anno permetterebbero di apprendere meglio e arrivare meno stanchi alla fine dell’anno scolastico. Magari anche di destagionalizzare un po’ il turismo.

Sogno scuole che rimangono aperte quando le lezioni si fermano, con servizi pubblici – gratuiti o a pagamento a seconda della fascia di reddito – garantiti a tutti per la cura dei bambini, in modo che chi lavora e non va in vacanza abbia un posto sicuro dove lasciare i suoi figli. Una scuola non dico all’avanguardia, ma che si sia resa conto che, nel 2023, i bambini a mietere il grano non ci vanno più.

Approfondimenti