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Iperconnessione, tagli lineari, classi pollaio, plexiglas: cosa non dovrebbe essere la scuola per Alberto Pellai

Intervista. Riportare l’istruzione al centro del discorso pubblico. Renderla anche un luogo di rielaborazione e ascolto. È la scommessa da vincere a settembre, per poter davvero ripartire. Il medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva sarà a Nembro per il Festival delle Rinascite il 1 luglio

Lettura 4 min.

Pellai è ricercatore presso il dipartimento di Scienze e Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva. È autore di molti libri per ragazzi, ma soprattutto genitori ed educatori. Mercoledì 1 luglio sarà a Nembro per il Festival delle Rinascite (piazza della Libertà, ore 21), organizzato da Oratorio, Comune e associazioni. Il tema è la scuola ai tempi del Covid-19, con un’introduzione di Patrizia Graziani e Antonella Giannellini, dell’Ufficio Scolastico territoriale di Bergamo. L’ingresso, come per tutti gli eventi in programma, è libero.

MM: Cosa ci ha insegnato il Covid della scuola?

AP: L’esperienza del lockdown ci ha fatto capire che la scuola è una camera di salvataggio, specie per adolescenti e preadolescenti. Le scuole Secondarie, tramite la Didattica digitale, hanno fornito loro una struttura della giornata. La scuola ha svolto un lavoro molto importante ai fini anche sociali, non solo dell’apprendimento. Altrimenti il tempo dei ragazzi sarebbe stato vuoto e completamente destrutturato. Cosa che ora si rischia con l’estate: se il territorio e gli oratori non si organizzano per offrire esperienze, i ragazzi rischiano di vivere un’estate vuota e devono loro inventarsi un modo per navigare a vista.

MM: Si potrà continuare con la Dad, l’acronimo che tutti abbiamo imparato a conoscere per Didattica digitale, anche a settembre?

AP: La didattica a distanza ha esposto ai pericoli dell’iperconnessione. La Dad non è un canale ideale o preferenziale con cui vivere l’esperienza dell’apprendimento. Secondo me non si può continuare con la Didattica digitale in contesti non emergenziali. Si tratta di uno strumento adatto ad adulti molto motivati, che non rispetta i bisogni evolutivi e di apprendimento dei minori. Il lavoro in aula è insostituibile.

MM: Tra le ipotesi per la ripartenza, quella di destinare alcune aule delle Secondarie per i bambini della Primaria. Così si creerebbero più spazi per i più piccoli, mentre i ragazzi integrerebbero con la Dad. Cosa ne pensa?

AP: Sotto i dieci anni è del tutto impossibile la Dad, gli allievi della Primaria sono coloro che hanno sofferto di più del lockdown, insieme ai bambini della scuola dell’Infanzia. Si è potuto fare poco, e ciò che si è fatto è inadeguato ai loro bisogni. Credo che sia normale privilegiare le loro necessità. Potrebbe quindi essere sacrificata l’esperienza in presenza per gli adolescenti, ma questo è un modo povero di fare scuola, la Dad impoverisce l’esperienza scolastica. Ma le nostre difficoltà attuali non sono che una cartina di tornasole.

MM: Di cosa?

AP: Dei tagli lineari (eliminare i costi senza badare al merito della spesa, ndr) e dello scarso investimento sulla scuola. Il problema delle classi pollaio esisteva già prima del Covid. Se le classi fossero state meno affollate e ci fossero in organico più docenti molti problemi sarebbero già risolti. C’è anche la questione della Paritarie: molte rischiano di chiudere e questo aumenterà ancora il carico sulla scuola pubblica. Ora arriveranno finanziamenti ingenti della Comunità europea e trovo che la scuola sia una delle voci principali da contemplare. Però abbiamo visto una spinta più forte per riaprire le pizzerie che non le scuole. Con la conseguenza che i ragazzi potevano vedersi per mangiare una pizza ma non in un’aula scolastica.

MM: Ed è un problema che ha riguardato anche le Regioni più “avanzate”, Lombardia in primis.

AP: Con la scuola abbiamo lo stesso problema del sistema sanitario, i tagli. Abbiamo investito in Sanità ad alto profitto, ma oltre ai centri di eccellenza serve il lavoro “sporco” sul territorio. Quello che è evidentemente mancato. In tutta questa fatica, famiglia e scuola devono ritrovare un’alleanza educativa. Supereremo i tanti problemi di settembre solo tramite una visione condivisa. Sarebbe servita, anche durante il lockdown, più comunicazione con i genitori, un colloquio virtuale almeno una volta al mese.

MM: Cosa fare ora?

AP: Abbiamo davanti a noi due mesi per capire l’andamento epidemiologico, che potrebbe farci trovare a settembre in una condizione di maggiore capacità di controllare la diffusione della malattia. Potremo attingere da tutte le esperienze degli altri Stati europei, che hanno riaperto le scuole da metà maggio e hanno una casistica da mettere a disposizione. Auspico una task force europea per decidere come sarà la scuola di settembre.

MM: Addirittura un coordinamento scolastico europeo? La linea in Italia sembra piuttosto quella di demandare tutto ai presidi…

AP: Invece che scatenare la propria creatività a livello locale, inventandoci ognuno una soluzione estemporanea, come il plexiglas, sarebbe utile studiare cosa fanno in altri Paesi. In Svizzera hanno riaperto le scuole – applicando i principi di rotazione, riduzione delle classi e ampliamento delle fasce orarie – e non hanno avuto nessun nuovo caso che sia partito dalle aule scolastiche.

MM: Eppure c’è più fiducia nel singolo dirigente scolastico che nel Ministero dell’Istruzione, in questo momento.

AP: La necessità di trovare soluzioni locali deriva dal fatto che le soluzioni nazionali proposte erano fuori dal principio di realtà. Come è accaduto, ad esempio, per gli esami e le tesine di terza media. È meglio che il Ministero non faccia affermazioni che poi deve smentire due giorni dopo. Ma dire “decidano i presidi” è come ammettere che chi è al timone della scuola non ha una rotta di navigazione. Paghiamo uno scotto terribile perché non abbiamo investito nella scuola.

MM: Alla fine, chi tiene insieme i pezzi è ancora la famiglia.

AP: Dopo la sanità, le famiglie sono state la seconda trincea in cui si è combattuta la battaglia del Covid. Hanno tenuto la rotta in una esperienza scolastica in cui nessuno era pronto. Nella mia esperienza personale, in dieci giorni ho dovuto trovare chi mi mettesse la banda larga per rendere possibile per quattro figli quattro collegamenti virtuali ogni mattina…

MM: Non tutti però sono riusciti a superare il digital divide. È questa la nuova forma di disuguaglianza?

AP: L’accesso alla Rete è diventato un criterio di inclusione o esclusione. Ci sono territori dove si sono persi il 40% degli studenti. La mancanza di connessione o di device adatti ha gravato su nuclei familiari già in difficoltà. Va detto che ci sono stati progetti per il reclutamento di device elettronici, presidi che hanno organizzato pony express con distribuzione di schede e compiti a domicilio. Resta il dato di fatto che il rischio del digital divide è evidente.

MM: Cosa consiglierebbe a un insegnante che a settembre torna in una classe dove il Covid ha seminato dei lutti?

AP: La scuola dovrà essere luogo di rielaborazione, ascolto, narrazione, significazione, dove mettere in gioco le competenze emotive di adulti e studenti. In una prima fase la scuola deve sapere parlare anche di questo, dando parola a ciò che bambini e ragazzi hanno vissuto. Anche su questo c’è un lavoro di cui gli insegnati si dovranno fare carico e su cui quasi nessuno li ha mai formati.

MM: Lei su questo ha scritto un libro, “Tabù. Come parlare ai bambini dei temi più difficili attraverso l’educazione emotiva”. Quali sono i nostri tabù di adulti?

AP: I tabù sono le parole che gli adulti non riescono a dire, su temi difficili come il lutto o la separazione. Si pensa che non esplicitando certi argomenti il bambino non soffra, quando invece la sofferenza del bambino è molto legata alle parole non dette, più che ai fatti.

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