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In difesa delle mamme col SUV

Articolo. Chi porta i figli a scuola in macchina non è più menefreghista di chi va a piedi, ma solo più sfortunato. Accompagnare i bambini è obbligatorio per legge, il traffico scolastico è inevitabile e va gestito come una questione pubblica, evitando di colpevolizzare sempre e comunque le madri.

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(bingimagecreator)

Quando accompagno i figli a scuola mi sento incredibilmente virtuosa: andiamo sempre e solo a piedi, o in bici. Piccolo particolare: la scuola è a 300 metri, circondata da piste ciclabili.

Proseguo la mia excusatio non petita assicurando che anche quando la scuola (nido) era un poco più lontana – distanza attorno al chilometro – non ho quasi mai preso la macchina, trovandola incredibilmente più scomoda della bicicletta, pure in caso di maltempo (come sa chiunque debba cercare parcheggio con la pioggia, vestire il bambino, aprire gli ombrelli, prendere il bambino in braccio o cercare di farlo camminare o infilarlo in un passeggino. Tutto risolvibile con due ruote e un bell’impermeabile).

Potrei quindi anch’io sentirmi legittimata a lanciare i miei strali contro gli incivili che parcheggiano sul marciapiede della scuola, incapaci di fare qualche metro a piedi, che se ne fregano del bene comune, del riscaldamento globale e della viabilità, e rammolliscono i figli già viziati, destinati a un sicuro futuro da bamboccioni. Peccato che nulla, di questa narrazione sempre più comune, abbia attinenza con la realtà.

La «mammina che accompagna i figli viziati fino al cancello della scuola con il Suv» è ormai un topos stradale, al pari dell’anziano che guida col cappello o del neopatentato «con la P di pirla». Per dimostrare la sua totale inesattezza non resta che farne l’analisi logica, parola per parola.

“La mammina che accompagna”

Certo, nella narrazione può comparire anche un papà, ma è meno frequente (per quanto il cancello della scuola dei miei figli sia pieno di padri, specialmente al mattino). La mamma funziona meglio, da un lato perché la cura dei figli è ancora e sempre considerata soprattutto femminile, dall’altro perché ricalca gli eterni stereotipi della donna al volante, un po’ oca e incapace di guidare, e della casalinga, che dopo aver portato i figli a scuola immaginiamo al bar a spettegolare con le altre mamme sfaccendate.

Nella parola “mammina” (come nella parola “mammo”, ma questo è un altro discorso) troviamo condensato tutto il disprezzo nei confronti del lavoro di cura. Accompagnare i figli è un’attività risibile e improduttiva, al contrario del virile impegno di chi va a lavorare, e dovrebbe avere quindi la strada spianata di fronte a sé (non ostacolata dal fastidioso traffico scolastico). La mammina è evidentemente una persona dai limitati interessi e dalle limitate facoltà mentali, che ha abdicato in favore dell’attività riproduttiva. Il suo massimo compito è portare i figli a scuola, e lo fa pure male.

«I figli viziati»

Qui c’è il fraintendimento più macroscopico: i genitori non accompagnano i figli per viziarli, ma perché sono obbligati per legge. Il nostro ordinamento penale (articolo 591 del Codice penale) prevede il reato di abbandono di minore, il quale si configura quando il minore di 14 anni viene lasciato da solo dalla persona che dovrebbe averne cura o custodia. Pena prevista: reclusione da 6 mesi a 5 anni salvo aggravanti.

Questo non vuol dire che sotto i 14 anni i ragazzini non possano mai andare a scuola per conto loro, ma per farlo i genitori devono firmare un’autorizzazione alla scuola, dove dichiarano che il figlio è abbastanza maturo da potere fare la strada da solo (attenzione: se dovesse succedere qualcosa la responsabilità è sempre del genitore). Tali autorizzazioni vengono di solito proposte alla Secondaria, salvo alcune eccezioni che lo rendono possibile già l’ultimo anno di Primaria (avviene soprattutto nei paesi), in ogni caso quando il bambino ha almeno 10 anni.

È una questione di responsabilità legale, ma anche di differenti approcci culturali. In Giappone bambini di sei o sette anni vanno a scuola da soli, anche prendendo mezzi pubblici o attraversando strade trafficate. Senza andare così lontano, in Germania è incentivato il fatto che i bambini vadano a scuola a piedi per conto loro. Da noi, no. Non si può pretendere che il singolo genitore faccia singole scelte controcorrente, assumendosene tutti i rischi. Per mandare i bambini in giro da soli e incentivarne l’autonomia c’è bisogno di tutto un sistema che funzioni, a partire dalla viabilità urbana.

«fino al cancello della scuola»

Ancora una volta: i genitori (possiamo farcela, vero, a parlare di genitori e non solo di madri?) non accompagnano i bambini fin sotto la scuola perché hanno paura che gli si sciupino i piedini. Lo fanno perché generalmente anche loro devono andare al lavoro e hanno fretta: accostano (o nemmeno) un secondo l’auto e controllano con un occhio che i figli entrino dal cancello.

Certo, in teoria dovrebbero, ogni mattina: cercare parcheggio, pagarlo (trovatemi delle strisce bianche vicino alla scuola, nelle città è impossibile), accompagnare il figlio a piedi, riprendere l’auto. Tempo stimato: non meno di venti minuti, escluso il viaggio in auto. E molti lo fanno, anche perché diciamocelo: una folla di auto in movimento davanti al cancello di una scuola non è il massimo per la sicurezza, tralasciando lo stress e la puzza dei fumi di scarico.

Anni fa, purtroppo, è capitato anche a me di dovere portare i figli a scuola in auto: è successo quando l’unico nido comunale dove hanno preso la mia seconda figlia era dall’altra parte della città, in un luogo pericolosissimo da raggiungere in bici (qualche volta ci ho provato, sentendo di mettere a repentaglio l’integrità fisica mia e della bambina) e in cui era impossibile andare con i mezzi pubblici a meno di non volerci mettere ore, ovviamente negli orari di maggiore traffico stradale. È stato un incubo, e ho fatto anch’io tutte le brutte cose che fanno le brutte persone costrette a portare i figli in auto: mettermi in doppia fila, arrivare in ritardo, parcheggiare sulle strisce blu senza pagare, lasciare la macchina con le quattro frecce dove non consentito. Tutto tranne parcheggiare nei posti riservati ai disabili, abiezione cui non sono mai giunta.

Anche per questo ho iscritto i miei figli alla scuola di stradario e ci andiamo a piedi, come fanno quasi tutti i genitori che abitano in città. Chi non può farlo non è un arrogante che vuole sfoggiare il suo mastodontico Suv, ma solo una persona che abita troppo distante (magari, lavorando, ha scelto la scuola vicino a casa dei nonni in modo che siano loro a ritirare i bambini) e che poi deve andare a lavorare.

«con il Suv»

Qui mi parte la deformazione professionale (nella vita mi occupo di auto): il Suv si è guadagnato la fama di vettura inquinante, costosissima, da arricchiti, ma in realtà è solo un tipo di carrozzeria sopraelevata e voluminosa. Negli ultimi vent’anni è diventato una delle tipologie di auto più diffuse, semplicemente per questioni estetiche e perché a molti dà un senso di sicurezza guidare stando “in alto”. Abbiamo Suv elettrici e ibridi (meno inquinanti di una vecchia Panda diesel, anche se capisco facciano meno simpatia) e Suv compatti (più piccoli della mia umile Octavia wagon). Insomma: Suv non vuol dire niente, serve solo a fomentare l’odio sociale verso chi ha “il macchinone”.

Morale della storia

Facciamo sempre fatica a capire dove inizi la responsabilità personale e dove quella collettiva. È vero che tanti genitori (e anche non genitori!) potrebbero rendersi conto che per brevi e medi spostamenti le gambe e la bici sono infinitamente più comodi e veloci dell’auto, ma è anche vero che certi cambiamenti sono collettivi.

Mi piace sempre citare il caso dei Paesi Bassi, il paradiso dei ciclisti. Sono più “bravi” di noi? Più atletici? Più responsabili? Hanno strade più piatte? La verità è che ci sono ragioni storiche e politiche che hanno portato a un cambiamento della loro mobilità. Negli anni ‘70 gli olandesi avevano anche loro grandi problemi dovuti all’aumento delle auto. Per risolvere il problema de traffico si crearono strade più ampie, parcheggi e si pensò persino di prosciugare i canali per costruirci sopra nuove strade. Nel 1971 oltre tremila olandesi morirono in incidenti stradali, fra cui 400 bambini. In reazione a quei numeri e quei fatti nacque un movimento di protesta chiamato Stop de Kindermoord («fermiamo la strage di bambini») che portò a una riduzione dei limiti di velocità per le auto, maggiore sicurezza e ritorno alla bici.

Che i bambini debbano andare a scuola è un dato di fatto, che debbano farlo obbligatoriamente accompagnati dai genitori è un aspetto che si può rivedere, magari attivando un piedibus. Che debbano essere portati a scuola in auto è spesso una triste necessità, che contribuisce ancora di più a escludere i bambini dagli spazi pubblici. Ogni singolo genitore e ogni bambino si pone la questione di «come andare a scuola» ma gli spostamenti “di massa” (i bambini che vanno a scuola, così come i tifosi che vanno allo stadio o i fedeli che partecipano a una processione) non sono una faccenda privata. Sono una questione collettiva, che collettivamente va gestita trovando le giuste soluzioni. Ma è molto più facile prendersela con le «mammine col Suv», tra una smorfia di fastidio e un sorrisino di scherno.

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