Poche cose, invecchiando, cambiano la loro identità più radicalmente di settembre: il mese più malinconico per i figli e più atteso dai genitori. Dal temuto del rientro in classe, all’attesissimo ritorno in classe. Il tempo che finisce e quello che, finalmente, ricomincia.
Il rientro in classe
Il pensiero della scuola si apriva come uno spiraglio nella mente passato il Ferragosto, per essere subito ricacciato indietro. Ignorato, seppellito dalle chiacchiere con le amiche, dalle corse in bici, dal nulla di certi pomeriggi passati fra un fumetto, un ghiacciolo, i cartoni nella televisione dei nonni. Poi – inevitabili e molesti – il 20, il 21, il 22 che scorrono inesorabili fino al 30 e al 31 agosto. La fine: non si poteva più ignorare l’imminente ritorno in classe.
Il segnale partiva chiarissimo dai supermercati. Negli anni Novanta avevano il buon gusto di non vendere panettoni né in agosto né in settembre, ma gli astucci per la scuola non mancavano mai. Montagne di astucci, con tutti gli accessori: goniometri, righelli, gomme bicolori, pennarelli e dall’altra parte pastelli, temperamatite, compassi. E ancora zaini, diari, quaderni, pile di quaderni.
E ogni volta mi ponevo la stessa domanda: la scuola comincerà prima o dopo il mio compleanno? Il 15 settembre, come uno spartiacque fra il prima e il dopo. O forse proprio il 15, come capitò in seconda media. Ora, come allora, attendo settembre come un cambiamento epocale, ma con ben altro spirito. Quello che prima era un pensiero scomodo, una minaccia incombente, ora è un miraggio: settembre è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Quando arriva settembre?
Sul serio: quando arriva? Non la mera data sul calendario – che pure, dopo due mesi e mezzo di figli a casa da scuola, non arriva mai – ma settembre come stato dell’anima e della logistica: la ripartenza, il nuovo anno. Quando si riparte?
Non certo il primo settembre, e nemmeno la prima settimana. Abbiamo temporeggiato in giugno, fatto i centri ricreativi in luglio, accroccato le vacanze in agosto (non tutto il mese, ovviamente, chi se lo fa oggi un mese di vacanza, siamo seri), ma che ne facciamo di questi giorni di settembre in attesa che arrivi la scuola? Che ci fai, con i bambini, a settembre, mentre lavori? Cosa ti inventi per prolungare quest’agonia di estate? Finisci i compiti delle vacanze.
I compiti delle vacanze
Quando ero piccola i compiti erano, essenzialmente, fatti miei. Da adulta è ancora così: nel giro di un paio di decenni i compiti (non solo quelli delle vacanze) sono diventati responsabilità dei genitori.
Anche noi nati negli anni Ottanta avevamo madri e padri che ci urlavano «Fai i compiti!», ma spesso e volentieri il loro contributo finiva lì: nel ricordare ai figli il loro dovere. Non è detto che venissero ascoltati: magari li facevamo poco e male, ci riducevamo all’ultimo giorno, copiavamo dagli altri compagni, leggevamo solo la quarta di copertina dei libri assegnati (internet, per i riassunti, non c’era ancora, non nelle nostre case, sicuramente non nei nostri telefoni).
Nota personale: mai avuto problemi a finire i libri assegnati – nemmeno Mastro-don Gesualdo – ma ricordo ancora le proiezioni ortogonali ricalcate alla finestra dalle tavole di studenti migliori di me. Ma erano, appunto, fatti nostri. Così come era nostra l’ansia di arrivare con i compiti non fatti, il sollievo estremo nello scoprire che il libro delle vacanze non sarebbe stato controllato o il terrore delle verifiche di inizio anno. Fatti nostri.
Ora, a essere oppressi dalla mole di compiti, sono – prima ancora dei bambini – i genitori, che pianificano il tempo libero della famiglia in virtù di quanto manca per finire il libro delle vacanze e le schede e i disegni da consegnare e le letture (ché magari sugli esercizi di matematica si può barare, ma non si può certo leggere il libro di narrativa al posto del proprio figlio, o no?). Un’ansia moltiplicata dalla messaggistica istantanea: quello era da fare, quello no, manca quest’altro. Nemmeno fossero scadenze di lavoro.
La scuola
Poniamo che la scuola inizi il 12 settembre. La scuola inizia veramente il 12 settembre? Settembre è un sogno, dicevamo. Settembre è un dubbio amletico.
Può darsi che la campanella suoni il 12, ma di certo la settimana del 12 non sarà a tempo pieno. Magari neanche quella successiva. Si finirà a mezzogiorno? All’una? Talvolta alle 11? O si entrerà più tardi perché le prime ore sono scoperte? E la mensa? Se ne riparla a ottobre.
Troppo spesso settembre, di fatto, inizia a ottobre.
Tra i tanti mali della scuola italiana, che non abbiamo cuore di enumerare, ce n’è uno che non smette mai di sorprendermi: perché le nomine degli insegnanti non si fanno prima? Perché a settembre devono esserci tante cattedre scoperte? È così difficile stabilire alla fine del precedente anno scolastico chi deve andare dove? Forse fanno concorsi per l’insegnamento in agosto? Sperano – al Ministero o chi per esso – in un’improvvisa epidemia estiva che decimi le classi, in modo da accorparle e assumere meno insegnanti? Esiste una spiegazione logica?
Era così quando andavo a scuola io, è così adesso. Mi piacerebbe dire che, almeno da studente, questo inizio a singhiozzo (due ora qui, un buco là, poi un supplente – magari bravissimo – che vedi solo per cinque giorni, poi un altro) fosse soft e riposante, ma non lo era. Era stressante, destabilizzante. Diciamo anche umiliante per la considerazione che viene data alla scuola tutta (insegnanti, studenti, genitori).
Tutto il tempo del mondo
Il tempo che non è spezzettato da una miriade di scadenze: giornaliere, settimanali, mensili, annuali. Il tempo lungo, di giorni uguali, di giorni da inventare e nei quali perdersi. Quando la preoccupazione maggiore è quella di non finire in tempo il libro delle vacanze. Un tempo enorme, a volte anche opprimente: non è che tutte le estati dell’infanzia siano state da sogno, anzi. Ma il tempo non mancava, era moneta da scialacquare.
Ora per riavere un po’ di tempo – un pochino, non certo da annegarci dentro – bisogna che l’estate finisca. Che arrivi davvero questo benedetto settembre. Che i bambini ritornino a scuola, pomeriggi compresi.
Sogno di non svegliarmi più la mattina chiedendomi «E ora cosa mi invento?». Di non dovermi chiudere sul balcone per fare una telefonata di lavoro. Di uscire a pranzo con mio marito, da soli, in settimana. Un pranzo “di lavoro”, che sostituisce egregiamente una cena “romantica” (per la quale fra ristorante e baby sitter partono non meno di 80 euro, facciamo 100), senza pianificare dove mettere i pargoli, decidendo all’ultimo.
Evviva i temporali, le giornate più corte, la pizzeria sotto casa che riapre, evviva la normalità. Benvenuto, settembre.