Quando si comincia a parlare di politiche sulla natalità c’è sempre un po’ di allarme, anche in chi – come me – pensa che una qualche forma di intervento sia necessaria, se vogliamo uscire dall’inverno demografico. Questo perché già solo la parola «natalità» evoca mondi antichi: tasse sui celibi, massaie rurali, donne “costrette” a numerosa prole.
Non è un caso che la creazione di un Ministero della Natalità – abbinato alla Famiglia e alle Pari Opportunità – abbia suscitato più di una perplessità e diverse battute ironiche, ma il tema è dannatamente serio. A partire da un dato: 1,24, che sono i figli per donna in Italia.
Il calo delle nascite è inesorabile da decenni e ha conseguenze pesanti sul “sistema Paese”: tutta una serie di istituzioni, dal meccanismo pensionistico al modo di finanziare la sanità e l’istruzione, sono state costruite sulla base di struttura demografica in cui la maggioranza della popolazione è in età lavorativa. Si tratta di un vero e proprio debito demografico nei confronti delle generazioni future.
Più che mai sarebbe utile invertire la tendenza e rendere l’idea di riprodursi moderna, ambita, compatibile con la realizzazione personale e l’emancipazione femminile. I diritti riproduttivi sono di tutti: anche di chi non vuole avere figli. Perché tutti e tutte dovremmo essere in condizione di potere fare, o non fare, i figli che desideriamo.
Fertility gap : facciamo meno figli di quanti vorremmo
Incoraggiare la natalità non significa convincere le donne a fare più figli, ma mettere nelle condizioni di avere figli chi già li vorrebbe fare.
A questo proposito si parla di fertility gap , cioè la differenza tra il numero di bambini che le persone vorrebbero avere e il tasso effettivo di fertilità. Ebbene, in Italia, il divario tra figli desiderati e figli concepiti è più ampio che in altri Paesi. Tra i 25 e i 39 anni, il 61% delle donne e il 65% degli uomini vorrebbero avere più figli, ma, per ragioni diverse, il numero di figli effettivamente avuto al termine della vita riproduttiva è più basso.
Attenzione: questo non riguarda solo chi rinuncia del tutto a fare figli. Ma anche chi di figli ne ha fatto uno e – vista la missione impossibile che ha dovuto affrontare – non se la sente di ripetere l’esperienza.
Riguarda anche chi di figli ne vorrebbe più di due – scelta ormai “esoticissima”, che fanno quasi solo i veramente ricchi o i veramente poveri. Ho un’amica che – oltre a essere un’eccellente professionista munita di dottorato – ha sempre voluto una famiglia numerosa: ora dice che se facesse il terzo figlio dovrebbero ricoverarla in psichiatria. Non si tratta “solo” di difficoltà fisiologiche (notti in bianco, allattamento, fatica fisica) ma della totale mancanza di supporto alla famiglia.
Non c’è bisogno di convincere nessuno a fare figli
Non sarebbe logico incoraggiare chi i figli li vuole fare invece di convincere chi non ne vuole sapere? Eppure la narrazione – a partire dal malriuscitissimo «fertility day» del 2016 (era Ministra della Salute Beatrice Lorenzin, tanto per essere bipartisan) – è sempre quella: bisogna convincere le donne a fare più figli. E in questa frase ci sono già due errori: «convincere» (come se si potesse convincere qualcuno a procreare, io non mi permetterei mai, neanche con chi conosco benissimo) e le «donne» ammettendo che, alla fine, non solo la scelta, ma tutta la faccenda dei bambini sia affare loro (nostro).
Non c’è nessun bisogno di «convincere», bisogna solo fare in modo che fare un figlio non sia una mission impossibile. Perché – fatte salve le persone convintamente e liberamente child free – ci sono molte altre donne e uomini che un figlio – oppure due o tre o più – lo farebbero anche, ma «non possono permetterselo».
Non è mai solo una questione di soldi, anche quando è una questione di soldi
Dietro al «potersi permettere un figlio» non c’è solo lo stipendio. C’è la fiducia nel futuro: la relativa tranquillità dei genitori di non perdere il lavoro, o di poterlo ritrovare o cambiare facilmente. La serenità di guadagnare il giusto, di non vedere eroso il proprio potere di acquisto e di non diventare poveri lavorando. C’è la certezza di avere una rete sociale che supporta i neogenitori. C’è la speranza di potere garantire istruzione e salute pubblica di qualità al nuovo arrivato.
Tutte cose che, ops, mancano.
Dobbiamo davvero spiegare tutti i punti? Facciamolo brevemente: l’indice di fecondità è di 1,71 figli per donna a Bolzano e di 0.89 a Oristano (indicatori Istat). Dove c’è più lavoro e i servizi funzionano meglio si fanno più figli, che sorpresa. In Sardegna, dove il tasso di occupazione femminile è fra i più bassi d’Italia, le donne non fanno figli.
Di nidi, assegni e bonus
Parliamo della rete sociale: fino ai 3 anni, quando il bambino bene o male di norma riesce a entrare in una scuola per l’infanzia comunale (salvo dovere ricorrere ai privati, se i genitori finiscono di lavorare dopo le 16, ma questo è un altro discorso) il figlio è completamente a carico dei genitori. Il livello di copertura degli asili nido in Italia (cioè il numero di posti nei servizi educativi per 100 bambini residenti sotto i 3 anni) è del 26,6% .
Cosa significa, concretamente? Anche in una città come Bergamo – che voglio pensare ricca ed evoluta – per una coppia di genitori che lavora trovare posto in un nido comunale è un terno al lotto. Bisogna incrociare le dita, perché nulla è garantito (specifico che comunque il servizio è a pagamento, in base all’Isee).
Nel mio caso, con il primo figlio trovare un posto al nido fu impossibile. Sperammo tutta l’estate in un “ripescaggio” (è possibile, se qualcuno si ritira), poi in ottobre ripiegammo su una struttura privata. Con la seconda figlia, invece, avevamo guadagnato abbastanza punti (se hai già altri bambini scali più facilmente la classifica) per ottenere un posto al nido. Evviva. Ma non è un diritto garantito.
Quindi chi non vuole o non può rinunciare al lavoro deve mettere in conto o di appoggiarsi ai nonni – che tanti miei amici, ad esempio quelli arrivati in Lombardia da altre regioni italiane, non hanno disponibili – o pagare una baby sitter o un nido privato o, più spesso, una combinazione delle tre cose.
Direte: c’è l’Assegno unico e universale per i figli a carico. Sono lieta che sia diventato universale. Ma – come anche tutti i bonus bebè, bonus nascita e quant’altro – non risponde all’esigenza primaria di avere dei servizi efficienti e a disposizione di tutti per la prima infanzia, possibilmente pubblici. Non sono certo i cento euro o giù di lì che prendo al mese per due figli che possono convincermi del fatto che essere un genitore sia una missione possibile. Sapere di avere dei servizi garantiti, invece, forse sì. Non ci serve una mancia, ci servono dei diritti.
Il lavoro
Personalmente non conosco nessuna donna della mia età che faccia la casalinga, e anche fra le donne delle passate generazioni faccio fatica a trovarne. Sarà che sono di Bergamo: lavora mia madre, lavorava mia nonna (in Svizzera), lavorava la mia bisnonna (nei campi).
Non ho nessun pregiudizio su chi decide – liberamente e convintamente – di fare la casalinga, anzi mi piacerebbe conoscerne qualcuna, ne sarei curiosa. Il fatto è che raramente – a meno di non essere molto benestanti di famiglia – stare a casa è una scelta. Si chiama disoccupazione. E quando il lavoro non c’è i figli non si fanno.
Il mondo del lavoro, specie al femminile, è variegato di orrori: domande su matrimoni, figli, parenti a carico in fase di colloquio (illegali); mobbing e demansionamento appena annunciata la gravidanza o al rientro; dimissioni in bianco eccetera. Ma ci sono anche situazioni meno drammatiche (e meno illegali) che sono del tutto abituali e hanno un impatto notevole sulla scelta della donna di avere figli: non avere un contratto che garantisca la maternità, ad esempio. Avere orari di lavoro rigidi e incompatibili con le cure parentali. Non potere accedere allo smart working anche nei lavori che lo permetterebbero. L’impossibilità di fare carriera, per chi lo desidera, se non dedicando al lavoro 12 ore al giorno. Un mondo del lavoro ancora molto focalizzato sulla presenza e poco sulla produttività.
Il mito della donna “liberata” (dai figli)
Poter scegliere cosa fare della propria vita e del proprio corpo è stata una grande, e solo recente, conquista per le italiane. Il problema attuale è avere trasformato il fatto stesso di non avere figli in un atto di emancipazione. Una narrazione tossica, che contribuisce al crollo demografico.
Alla donna liberata dalle catene della maternità – e che quindi può lavorare anche 12 ore al giorno, viaggiare, produrre, consumare, agire nel mondo – si contrappone la scelta (rispettabile ma un po’ antica) di chi ha la «vocazione» per la famiglia, e quindi sceglie di riprodursi. Due mondi contrapposti, che nella realtà non esistono. Perché nessuna di noi vorrebbe essere costretta a scegliere.
«Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale»
La maternità non dovrebbe essere una vocazione specialissima, riservata alle elette che si immolano per avere figli. Dovrebbe potere essere una tappa “normale” (non obbligatoria e certamente non forzata) in un percorso di vita che comprende molto altro. Dovrebbe potere diventare madre non solo chi lo desidera moltissimo a scapito di ogni altra cosa, ma anche chi dice «magari sì, ma a certe condizioni».
A me viene in mente la Costituzione:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Forse di questo dovremmo parlare, quando parliamo di natalità.