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I bambini e la morte: come affrontare l’ultimo dei tabù

Articolo. Vogliamo proteggere i nostri figli, ma i bambini hanno bisogno di confrontarsi con il mistero e la paura della morte. Un concetto che capiscono benissimo, e non c’è modo di edulcorare. Il nostro dovere è esserci, senza scappare dalle loro domande.

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«Non voglio crescere, non voglio diventare grande, non voglio diventare vecchio e non voglio morire. Neanche fra cento anni», mio figlio ha 7 anni e le idee molto chiare. Un paio di anni fa è morta la sua amata nonna e da allora il concetto di «fine» gli è chiarissimo e non gli piace per niente, soprattutto applicato a sé stesso.

Quando un figlio – bambino o ragazzo che sia – ci parla di morte proviamo sempre a rassicurarlo, ma i nostri strumenti sono spuntati. «Sei giovanissimo, non pensarci» non è una tattica molto brillante, perché non fa che spostare l’inevitabile, cercando di rimuoverlo. Chi è religioso – e crede seriamente nell’aldilà - ha senza dubbio un’arma in più, anche se mio figlio risponderebbe che lui non ci vuole andare in cielo, ma preferisce rimanere esattamente com’è e dov’è ora.

L’ultimo tabù

Tutti noi, ogni uomo e donna passati sulla Terra, dobbiamo confrontarci con il concetto di morte. Ed è tremendamente spaventoso, per la maggior parte di noi. Per un genitore è difficile accettare che, avendo dato la vita ai nostri figli, abbiamo donato loro anche la morte. La loro fine, se siamo ragionevolmente fortunati, noi non la vedremo mai, ma loro dovranno farci i conti.

Sebbene molti ci provino, non c’è modo di rendere la morte un concetto “delicato” e “adatto ai bambini”: contemplare la fine della nostra vita è brutale. I bambini lo capiscono benissimo, anche se noi grandi vorremmo proteggerli da questa dolorosa consapevolezza.

Davanti alle domande “scomode” che ci rivolgono i bambini («Tu, mamma, morirai? Io morirò? Cosa succede quando si muore?») abbiamo il dovere di non scappare, non minimizzare, non cambiare argomento, non scherzare, non trattare la morte come l’ultimo tabù rimasto. Se ci neghiamo per proteggere i nostri figli dalla tristezza, neghiamo il nostro aiuto. Non rispondere alle loro domande sulla morte, sulla sofferenza e il dolore vuol dire lasciare i bambini inermi di fronte al loro bisogno di comprendere.

Non possiamo dare ai nostri figli risposte assolute, ma possiamo rimanere al loro fianco, parlare e farli parlare, raccontare le spiegazioni (religiose o meno) che si sono dati gli uomini nel corso dei secoli, condividere le nostre paure, proporre riflessioni e libri (qui abbiamo chiesto a un’esperta di consigliarci alcuni albi illustrati sul tema), perché interrogarsi sul senso della morte è interrogarsi sul senso della vita. Parlarne aiuterà a rassicurarli davvero, senza falsità.

Riprendiamoci la morte

Mi è sembrato un segno grandissimo di civiltà che nella sala del commiato dove abbiamo salutato mia madre ci fosse uno spazio specificatamente dedicato ai bambini. Un angolino ben allestito, confortevole e allegro, con poltroncine e tavolino, fogli e colori, e una piccola libreria con volumetti dedicati al tema del lutto.

Viviamo in un contesto in cui la morte è spettacolarizzata e anestetizzata – che siano i morti ammazzati nei film, le vittime delle catastrofi naturali o della guerra vista in tv, indistinguibili da quelle di una serie su Netflix – oppure rimossa, perché allontanata dalle nostre case e dalla nostra quotidianità. Per questo, trovarmi in un posto familiare, che sembrava una scuola d’infanzia o una ludoteca, ma dove la morte è il tema centrale, mi ha molto colpito. Penso sia stato utile a tante famiglie.

Così come possiamo usare i libri e la letteratura, possiamo servirci dell’arte per “riprenderci la morte”. Ce lo ha dimostrato Marina Abramović nella sua mostra a Bergamo, in cui l’artista ha smantellato la congiura del silenzio sulla morte, attraverso una vera e propria retrospettiva di suoi lavori storici e recenti. Un’esposizione dove non ho portato i bambini, che porterei invece serenamente a vedere i Macabri del Bonomini, in Città Alta, o il Trionfo e danza della morte, a Clusone. Segni tangibili di un’epoca dove la morte non era un rimosso collettivo, ma un’evidenza per chiunque – grandi e piccoli - e l’ars moriendi un best seller.

E riprendiamoci anche la Vigilia di Ognissanti

Questo è il periodo dell’anno dove assistere alla trita polemica su Halloween, festa celtica e pagana importata dagli Stati Uniti insieme al consumismo. Una pacchianata che banalizza la paura della morte, esclude il sacro ed è l’ennesima occasione per ingurgitare zuccheri e comprare paccottiglia. Tutto vero, peccato che sia falso.

La festa che noi percepiamo come “non appartenente alla nostra cultura” è in realtà presente nel folklore di tutte le regioni italiane. Nei giorni che vanno dalla Vigilia di Ognissanti a San Martino (11 novembre) sono da sempre presenti, o almeno lo erano fino a pochi decenni fa (eccolo ancora una volta: il rimosso collettivo della morte) tutti gli elementi costitutivi della festa, improntata sulla celebrazione di un “ritorno dei morti”. C’erano i riti di accoglienza per i defunti, i dolci tradizionali dal nome macabro, le questue dei bambini, i racconti terrificanti e perfino le zucche intagliate. Per chi volesse approfondire segnalo «Halloween. Origini, significato e tradizione di una festa antica anche in Italia» di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi, edito da «Il Ponte Vecchio».

Per dirla tutta, Halloween (All hallows’ even = vigilia di tutti i santi) è una ricorrenza di origine cattolica , risalente addirittura all’ottavo secolo, quando Papa Gregorio III istituì sia la festa di Ognissanti (1° novembre) sia la sua vigilia (31 ottobre). Furono i puritani inglesi, quasi mille anni dopo, a demonizzare la festa come pagana, per screditare le tradizioni dei cattolici d’Irlanda e Highlands scozzesi (provarono anche a cancellare il Natale).

Al di là della digressione storica – che mi sembra interessante perché si parla sempre di un gigantesco rimosso collettivo – è degno di nota quanto ai bambini piaccia questa ricorrenza. Molto più di Carnevale, nella mia esperienza. Anche questo ci dice qualcosa del bisogno dei bambini di confrontarsi con il mistero, la paura, la morte.

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