L’ultima in ordine cronologico è stata la senatrice Lavinia Mennuni (FdI), che ha sollevato un polverone affermando in una trasmissione tv che la maternità deve tornare a essere “cool” per le diciottenni. Sono temi che ci pungono sempre sul vivo e l’orientamento politico ha un’importanza relativa: il disastroso “fertility day” veniva dall’altra sponda del Parlamento e suscitò polemiche simili.
I motivi sono due: il primo è che siamo diventati allergici ai proclami ideologici sulla natalità in mancanza di supporti concreti per chi decide di fare figli, il secondo è che la maggior parte di noi – cittadini e soprattutto cittadine in età fertile – rifiuta un’idea “antica” di maternità, vista come principale missione femminile e desiderio di ogni donna. Se davvero c’è una qualche volontà di uscire dall’inverno demografico (1,18 figli per le italiane) dobbiamo davvero cambiare l’idea e l’esperienza della genitorialità. Per questo l’appello alle sole donne è fuorviante – e gli uomini? Il loro desiderio di paternità è più trascurabile? – e ha esattamente l’effetto opposto: essere le “angele” del focolare non è più il nostro sogno, se mai lo è stato.
Un’idea moderna di maternità
Il problema è che fatichiamo a costruirci un’idea “moderna” di maternità, e così si insinua il pensiero – assai diffuso, anche se non sempre verbalizzato – che sia reazionario fare figli e progressista non farli. Una conclusione assurda, se solo ci soffermiamo a rifletterci, perché pochi slanci nella nostra vita sono orientati al futuro come mettere al mondo dei nuovi esseri umani.
Eppure, le esternazioni della senatrice Mennuni hanno avuto almeno il merito di metterci di fronte alla realtà, come uno specchio: non pensiamo che i figli siano “cool”, ma proprio per niente. Crediamo che siano le donne senza più alte ambizioni a fare i bambini, che le persone più consapevoli – perché si interessano di geopolitica o soffrono di ecoansia – si astengano dal riprodursi per un atto di responsabilità, che a meno di non essere molto ma molto benestanti sia sconsiderato fare più di un figlio, che le famiglie numerose siano appannaggio o dei super ricchi o di immigrati retrogradi sprovvisti di accesso agli anticoncezionali, che qualunque tentativo di supporto alla maternità sia di stampo “fascista” e miri a fare della donna una macchina per sfornare bebè.
La maternità viene descritta costantemente come una fatica improba che lascia devastati corpo e finanze, capelli e salute mentale, relazioni e guardaroba. Oppure come un’esperienza mistica di amore assoluto, che magicamente dà un senso alla devastazione sopra descritta. Insomma: niente di particolarmente cool e aspirazionale. Eppure è una descrizione che non rende giustizia al lavoro quotidiano dei genitori, che è gratificante quanto impegnativo, di altissima responsabilità e utilità sociale, che richiede la capacità di pianificare sia a breve sia a lunghissimo termine, dove si mettono in campo creatività, problem solving e fantasia, e dove la “capacità di performare sotto stress” diventa una frase di senso compiuto.
Libertà da e libertà di
Noi millennials (nati tra il 1980 e il 1996, grossomodo chi si sta riproducendo ora) siamo cresciuti da genitori che, nella quasi totalità dei casi, ci hanno dato come missione nella vita di studiare e trovarci un buon lavoro, più che un buon partito. Non siamo figlie degli anni ’50. Nessuno, neanche mia nonna classe 1934, mi ha mai chiesto quando le avrei dato dei pronipoti.
Lo stesso, non posso fare a meno di chiedermi: ci stiamo battendo per le giuste cause? Più che la libertà di non fare figli, che do per assodata nell’Italia del 2024 (sbaglio?), forse dovremmo batterci per la libertà di fare figli. Di fare figli e, contemporaneamente, rimanere donne del 2024: con un lavoro, un cervello, un conto corrente, delle passioni, delle responsabilità e degli interessi esterni alla famiglia. Vale anche a sessi invertiti: la possibilità di avere figli ed essere dei veri padri. Presenti, responsabili, coinvolti nelle attività di cura, senza rimanere relegati nel ruolo del “genitore maschio” che porta lo stipendio a casa.
Il lavoro, che alla mia generazione è stato prospettato come la massima espressione delle nostre potenzialità, quanto ci soddisfa realmente? Quanto ci appaga? Quanto risponde alle necessità, materiali e spirituali, della nostra vita, e quanto invece le ostacola? Perché dovremmo considerarlo la missione della nostra vita, se il più delle volte ci serve essenzialmente a pagare le bollette? Come siamo arrivati a considerarlo un’attività più “nobile” dell’allevare figli? Mi dà speranza che le generazioni successive alla mia diano sempre più importanza al tema della conciliazione e della qualità della vita, e che si stia insinuando la consapevolezza che gli uomini dovrebbero cambiare i pannolini, anche per salvare l’economia.
Voglio fare la nonna
Tra le mie compagnette dell’asilo ce n’era una che alla domanda: «Cosa vuoi fare da grande?» rispondeva: «la nonna». Probabilmente aveva una nonna molto amata, che era il suo punto di riferimento. All’epoca mi sembrava una risposta bizzarra, ora penso fosse molto saggia. Dopotutto fare la nonna significa: avere raggiunto un’età avanzata, con forti affetti nella propria vita e in uno stato di salute sufficientemente buono da consentire di occuparsi dei bambini. Invidiabile. È davvero una meta che vorrei raggiungere, non troppo presto, ma neanche troppo tardi (egoisticamente parlando).
Per questo non dirò mai ai miei bambini – né al maschio né alla femmina – che fare figli è limitante, che devono pensare solo allo studio, al divertimento, al lavoro. La prospetterò come una normale (non obbligatoria) evoluzione della vita, che sarà bello se vorranno assecondare.
Non molesterò – spero – i miei figli con frasi come: «Quando mi fai un nipotino?», ma neanche dirò loro che i figli sono una rogna e la fine della vita spensierata, altro luogo comune con cui è cresciuta la mia generazione. Non so se avere figli sia “cool”, ma scommetto che avere dei nipoti lo sarà senz’altro, qualunque cosa “cool” significhi.