“Fame d’amore. Prevenire e curare i disturbi alimentari” è il titolo dell’incontro che si svolgerà giovedì 13 febbraio all’Auditorium della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (via Corridoni 97 Bergamo, ore 20, ingresso gratuito). Come dal titolo, il tema sarà quello dell’anoressia e dei disturbi alimentari delle giovani generazioni. Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta Gloria Volpato, direttrice del Centro Divenire.
Come già successo nella conferenza sul narcisismo tenuta dal dottor Giuseppe Iaculo (link) si partirà dal dialogo con il pubblico in sala, libero di intervenire.
Non è colpa della mamma
Quando si parla di problemi alimentari bisogna smantellare alcuni pregiudizi, primo fra tutti che la colpa sia sempre della madre. “Quando noi psicoterapeuti parliamo di madre non parliamo della signora Giorgia Rossi (o altro nome di fantasia), ma di una funzione psichica che incorporiamo attraverso la relazione con chi ci accudisce. La madre ci è indispensabile per strutturare il nostro mondo interno e filtrare per noi le esperienze esterne in maniera ‘digeribile’ per il nostro apparato psichico, per restare nella metafora alimentare”. Di solito è compito della madre biologica, nei primi mesi di vita, ma non è detto che sia sempre così.
Molte coppie di oggi infatti si alternano bene nella funzione di accudimento primario del bambino. Allo stesso modo esiste una funzione paterna, che non è detto sia svolta solo e unicamente dal padre, ad esempio un genitore singolo può farle entrambe. Ma quali sono queste funzioni? “Della madre riconosciamo la capacità di accogliere, supportare e accettare incondizionatamente (caratteristica che non dipende dall’essere femmina). La funzione paterna, spesso svolta da tante madri, è rappresentata dall’applicazione della norma, ovvero il richiamo alla necessità di accettare la realtà con i suoi limiti. Non bisogna pensare questa funzione in termini repressivi. Usando una metafora, le regole sono come le linee che delimitano un campo da gioco che servono per permettere il gioco e non reprimerlo”.
Il cibo come soluzione al dolore
Il cibo è insieme la prima risposta fisiologica e la più arcaica al dolore. “Un bambino si attacca al seno della madre non perché ha fame, ma perché è disperato a causa del trauma della nascita”. Le regole imposte dalla già nominata ‘funzione paterna’ servono per “digerire la separazione dalla madre e andare nel mondo. Il buon padre, la cui importanza cresce col crescere del figlio, impone al bambino una frustrazione sostenibile e non eccessiva. Per far questo deve essere in grado di comprendere a che punto è il bambino nella sua evoluzione”.
Il buon padre è importante per il figlio, ma ancora di più per la madre sin dalla nascita quando si pone a protezione e sostegno della diade mamma-neonato: “L’aspettativa culturale classica è che provveda al sostentamento economico, ma può ben occuparsi anche di togliere i piatti della lavastoviglie o cullare il bambino di notte senza che questo significhi fare il mammo”.
Una terapia per la famiglia
Come abbiamo visto, il cibo è la prima soluzione al distacco e al dolore. Se ragioniamo in questi termini, come dice Massimo Recalcati, facciamo un discorso alimentare, ed è questo l’obiettivo primario della clinica dei disturbi alimentari.
“Si tratta di entrare in uno spazio corporeo non verbale per tradurlo in una semantica che ri-costruisca l’individuo. Tutto ciò non può che avvenire in un campo relazionale che abbia una visione sistemica del malessere di tutti, non solo di chi è portatore del sintomo. Mi è capitato di risolvere anoressie prendendo in carico la madre o la coppia di genitori, piuttosto che la portatrice del sintomo”.
Ma come è possibile questo? “Si tratta di madri, di solito ansiose, che non hanno il piacere di prendersi cura né di sé né della figlia: lo fanno per dovere, quindi è un curare molto mentale e non affettivo”. Sono madri cui oggi è richiesto troppo, e con poco sostegno. Da qui l’escalation al disturbo alimentare e alla sofferenza mentale. Curare l’anoressica è come sostituire il cruscotto se si accende la spia dell’olio, bisogna curare la famiglia.
Un adulto non è un super eroe
Ma continuare a parlare di madri e generazioni di donne non è un altro modo per prenderci, come sempre, la colpa? “Responsabilità significa essere abili a rispondere, capire che le risorse ricevute non sono state sufficienti e che si ha bisogno di un sostegno”.
L’adulto-adulto sa che è limitato e può chiedere aiuto, l’adulto-bambino è schiavo di una immagine supereroica. Lo stesso discorso vale anche per gli uomini che non se la passano tanto meglio delle donne, anzi: “Si trovano in una condizione di solitudine e isolamento. Non hanno confronto emotivo ed intimo con nessuno, sono considerati macchine da guerra performanti che devono simulare forza e coraggio che non hanno. Spesso non hanno amici veri, persone con cui parlare delle difficoltà e delle insicurezze. Questo a causa di una cultura che non li sostiene verso la scoperta del proprio mondo interiore che è la risorsa indispensabile per comprendere il dolore di un altro, specie se l’Altro in questione è la compagna e figlia che soffre di un disturbo alimentare”.
Quindi “padri come questi non sono ovviamente in grado di metter un limite allo strapotere e al controllo ansioso della madre. Semplicemente le lasciano il campo. Ci sono fisicamente ma non emotivamente”.
La sintomatologia del cibo
Il racconto di qualcosa che non sappiamo: “Un sintomo è una porta verso mondi infiniti. La prima cosa da chiedersi è: cosa non so della mia relazione con mia figlia?”. Poi bisogna accettare che un figlio non sia “nostro”, nel senso che non lo possiamo e non dobbiamo possederlo, e qui inizia la parte difficile per la maggior parte dei genitori: “La mamma di fronte a un bambino che non mangia si sente come se fosse il suo il corpo a digiuno. Invece il corpo è del figlio, che deve conoscere i confini corporei e il suo senso di sazietà. Il senso di controllo che porta il digiuno può comprensibilmente spiegare l’euforia della persona che soffre di anoressia. Un’euforia simile a quella che si sente con la cocaina”.
Il binomio anoressia-cocaina “forse non è un caso che sia sempre più frequente. L’obiettivo finale è lo stesso: non sentire il corpo, anestetizzarlo per stare nel paradosso in cui il corpo è un po’ della madre, che così continua ad occuparsene, e un po’ della figlia, che si illude di controllarlo a sua volta. Il corpo così diventa una bara, come lo intendeva Platone, dove i piaceri alimentari e sessuali che rimandano ad un istinto vitale sono una minaccia. Ecco che l’equazione biologica si inverte: mangiare è uguale a morire, di conseguenza il cibo viene considerato un nemico. Allo stesso modo diventa ossessivo il controllo dell’evacuazione, attraverso il vomito o l’abuso di lassativi”.
Riprendersi il corpo
Sappiamo quanto la magrezza è appealing. Il corpo è qualcosa da ostentare e mostrare, ma non da abitare, vivere come fonte di gioia e piacere. “L’anoressia è solo uno dei disturbi alimentari, che sono una richiesta d’amore e hanno molte sfaccettature”. Come abbiamo detto, a volte a dover essere presa in carico è l’intera famiglia: “Succede quando l’anoressica rimane invischiata nel rapporto problematico dei genitori. La figlia assume il ruolo della madre, giudicata inadatta dal padre. Ma quando arriva il momento della pubertà il padre – spesso narcisista, freddo, lontano – si sente minacciato e rescinde il legame speciale che aveva con la bambina, che quindi cerca di negare il suo cambiamento ed eccellere in altri campi, ad esempio a scuola, per non deluderlo. Il primo passo, in questo caso, è il sostegno al padre, affinché faccia sentire quanto la figlia è significativa per lui”.
Un incontro personale
In generale, comunque, la dottoressa Volpato mette in guardia dall’idea di curare tutti allo stesso modo e illudere di farlo in poco tempo. Le dipendenze alimentari in molti casi rappresentano una soluzione che ha permesso di sopravvivere a vissuti dolorosi importanti, come i traumi da abuso che sono tra i più devastanti. La ferita alla fiducia che sta alla base può essere guarita solo se la relazione terapeutica funziona e spesso le tante esperienze di cura fallimentare tendono purtroppo a cronicizzare il disturbo. Conclude la psicoterapeuta: “Io lascio sullo sfondo tutto questo sapere ed ogni volta mi approccio come se fosse la prima volta, perché la chiave d’accesso è l’incontro da essere a essere”.