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Esistono i «lavori da mamme»? E se esistessero e fossero il modello di lavoro per tutti?

Guida. Conciliazione è la prima parola che si usa per definire un impiego adatto a una madre: un buon lavoro è tale se le consente di avere il tempo per curare anche la famiglia. Per la carriera e l’ambizione non c’è spazio. Ma, forse, si tratta di una prospettiva da rivoluzionare completamente

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Un giorno ascoltavo su Radio24 un’esperta spiegare che grave problema sia che le donne non lavorino come gli uomini: lavorare e guadagnare meno mina la nostra sicurezza economica e finanziaria, anche in vista della futura pensione. L’economista procedeva a illustrare tutti i modi in cui rendere possibile alle donne lavorare full-time: maggiore cooperazione all’interno della famiglia, più servizi (nidi prolungati, facilitazioni per assumere baby-sitter, doposcuola gratuiti), leggi che incentivino il ritorno al lavoro dopo la gravidanza. Tutto un elenco di provvedimenti che ho sempre considerato – e considero – giustissimi. Eppure, l’unico pensiero che mi frullava in testa era: «Ma se una non avesse proprio voglia di tornare a casa tutti i giorni dopo le sette di sera?».

Tornare a casa alle sette di sera

Ci penso da quando una mia conoscente neo mamma, con un buon lavoro a tempo a tempo indeterminato, commentando le mie invettive contro il lavoro povero delle madri mi ha scritto: «Sì, ma noi che lavoriamo full-time vorremmo anche starci con i figli». Lei è di quelle che arrivano a casa alle sette di sera.

Tutt’e due sappiamo benissimo che ci possono essere orari ben peggiori, guai a lamentarsi: turni che finiscono più tardi, pendolari con viaggi più lunghi. Ma chiunque abbia figli piccoli sa che tornare a casa alle 19 (ma anche solo alle 18) significa non avere tempo per fare niente: non poter prendere i bambini a scuola né seguirli nei compiti o nelle attività sportive; arrabattarsi con la cena e il minimo di attività domestiche necessarie alla sopravvivenza; non avere un attimo per una conversazione rilassata, un gioco, un libro, una qualsiasi attività improduttiva; procedere con la messa a letto: denti, pigiama e (forse, per i bimbi più fortunati) storia della buonanotte.

Il lavoro di cura

Lo chiamano “lavoro di cura”, ed è in gran parte femminile; di solito si aggiunge che è un peso e che va condiviso. Ma, per la maggior parte di noi, quel “lavoro di cura” è anche un piacere: cucinare la verdura scelta personalmente al mercato, invece che scongelare qualcosa o affidarsi al delivery; guardare con calma i quaderni dei bambini e farsi raccontare qualcosa, invece di «Sbrigati, finisci i compiti»; poterli prendere a scuola, invece che mandarci sempre la tata o i nonni. Oppure avere la libertà di fare un po’ e un po’: sapere che giorno si starà un’ora ai fornelli e quello dopo si ordinerà la pizza; avere la serenità di sapere che la famiglia non crollerà se una sera facciamo tardi al lavoro o se dobbiamo partire per una trasferta di tre giorni, ma avere anche il tempo per godersi i figli nella quotidianità.

È un problema che riguarda anche gli uomini, ma in proporzione diversa (per certi versi più drammatica). Non conosco nessun padre con una “carriera” che torni a casa prima delle otto di sera. È normale vedere i figli meno di un’ora al giorno? È più accettabile per un uomo, oppure è un problema anche per lui?

Il part time 9-17

Una mattina incrocio per caso un’amica che non vedo da tempo davanti allo studio dove lavora: «Ah, bello, come ti trovi?», «Bene, ma non faccio tempo pieno – mi risponde con un’aria un po’ imbarazzata, quasi a giustificarsi -: alle 17 esco». Mi sono resa conto che un lavoro 9-17 è considerato praticamente un part time. «Però faccio anche la pausa pranzo», aggiunge, quando mi vede un po’ stupita.

La mia amica è una libera professionista a Partita Iva, ha contrattato un monte ore settimanale che le permetta di gestire le due figlie piccole. Suo marito è di quelli che tornano a casa alle otto di sera. Sicuramente guadagna più di lei, probabilmente farà più carriera, ma non credo che lei farebbe cambio. Sbaglia? È poco ambiziosa? Dovrebbero pagare una tata che prepari cena e metta a letto i bambini così da non penalizzare il lavoro di nessuno dei due? O sarebbe ora di normalizzare il fatto che – vale per le donne e per gli uomini - si può lavorare meno di 12 ore al giorno, e non per questo essere menefreghisti o poco brillanti?

Carriere alternative

La mia amica col part-time è “fortunata”: ha potuto fare valere le sue competenze per ottenere un lavoro relativamente flessibile e ben pagato. Per molte altre con lavori d’ufficio non è così. Ricordo la sorella di un’amica - impiegata efficientissima – che chiese il permesso di dimezzare l’orario della pausa pranzo in modo da uscire mezz’ora prima dal lavoro e riuscire a prendere la figlia a scuola: negato.

Perché sorprendersi che un part-time sia considerato oro e che – se non ci sono alternative - il lavoro femminile sia, a malincuore, sacrificabile? È peggio vivere una quotidianità dai ritmi infernali o non avere una reale indipendenza economica? Rinunciare a vedere crescere i bambini o rinunciare alla pensione? Perché sorprendersi di quella conoscente che, stufa di lavorare 10 ore al giorno per una borsa di studio, ha buttato alle ortiche la laurea in biologia per realizzare completini da neonato hand-made che vende online? E perché criticare l’amica che – dopo mille lavoretti malpagati - si è data al multilevel marketing e ora prova a venderci oli essenziali? Capisco anche l’aspirante mamma-influencer che, non riuscendo a trovare i suoi spazi in una carriera “tradizionale”, prova a utilizzare il suo estro e le sue capacità per procacciarsi follower e clienti. Sono le stesse madri di famiglia ambiziose che, 40 anni fa, facevano le presentatrici avon o tupperware.

Nulla mi toglie dalla testa che, se queste persone avessero potuto fare le biologhe, le commesse, le fornaie, le creative o le ragioniere (venendo pagate il giusto, con orari compatibili con la vita familiare, e magari sentendosi valorizzate) lo avrebbero preferito. Quante “risorse umane” formate e motivate hanno perso le aziende, in nome di una cultura tossica che premia solo la massima permanenza sul posto di lavoro?

Ma, quindi, quali sono i «lavori da mamma»?

Sarebbe logico, a questo punto, dirsi: «Ma sì, un lavoro part-time, poco impegnativo: questo è l’impiego ideale per una mamma». Poi mi viene in mente la mia vecchia compagna di banco, che ora ha un bimbo piccolo e un marito che torna a casa alle 21, ricercatrice e aspirante professore associato in Università. Lavora giorno e notte, fregandosene di conciliare alcunché. Se le proponessero un part-time ribalterebbe il tavolo: lo considererebbe solo un modo per farla fuori dalla feroce competizione universitaria (e, tristemente, avrebbe ragione). Il lavoro è un mezzo di sussistenza, ma non ha la stessa importanza per tutti.

Il problema, personificato dalla mia amica aspirante prof universitaria, è che difficilmente esistono lavori dalle carriere gratificanti che consentano di prendersi pause per mettere al mondo un figlio, né tantomeno di lavorare meno di dieci ore al giorno. E, molte di noi, una “carriera” la vorrebbero eccome, ma vorrebbero anche essere loro a portare i bambini a scuola. Ma questo non si può fare, a meno di un radicale cambiamento sociale che ridefinisca per tutti il concetto stesso di giornata lavorativa.

Ci riuscirà la generazione Z?

Molti desideri delle madri lavoratrici – orari flessibili, smart working, lavoro per obiettivi – sono gli stessi degli under 30, la generazione Z dei nati dopo il 1997. Secondo i dati di una ricerca Randstad, colosso delle risorse umane, l’equilibrio lavoro-vita privata è essenziale per i più giovani, che collocano questo fattore al primo posto tra i driver più importanti nella scelta del datore di lavoro (64%). Anche l’atmosfera di lavoro piacevole è fondamentale, al secondo posto tra i fattori di attrattività più importanti (61%). La retribuzione e i benefit vengono solo dopo, al quinto posto in classifica (55%).

Insomma, i giovani - maschi e femmine - vogliono lavorare “come le mamme” e non “come i papà”: non aspirano a tornare a casa tardi ogni sera e a vivere per lavorare. Cercano un lavoro che abbia un senso, considerano spesso essenziali il lavoro da remoto e gli orari flessibili, vogliono lavorare per aziende che trattino bene i propri dipendenti, i clienti, i fornitori e il pianeta (l’equità è tra i driver principali nella scelta del datore di lavoro per i giovani tra i 18 e i 24 anni).

La trasformazione delle aspettative lavorative dei giovani sembra essere un vero cambiamento culturale. Lavorare “come una mamma” potrebbe essere il nuovo mantra per il futuro, anche per i maschi e per chi non ha figli.

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