“Non hai figli, non puoi capire”, compresa la variante “Eeh… (sorrisetto) si vede che non hai figli”: non c’è frase più cretina, e siamo tutti d’accordo. È anche un modo velocissimo per farsi odiare, come se al reparto maternità distribuissero la scienza infusa che al resto del mondo manca. Perciò sgombriamo subito il campo dagli equivoci: chi non ha figli capisce benissimo.
Personalmente, i consigli più apprezzati e risolutivi su bambini e genitorialità mi sono arrivati da gente che non si è (ancora) riprodotta o che non ho la minima idea se lo abbia fatto (la mia adorata pediatra ha figli? Boh). Durante la mia prima gravidanza ero afflitta dalla mia mancanza di senso materno e la mia amica A., biologa e nullipara (cioè donna che non ha mai partorito), mi disse con piglio scientifico: “Guarda che l’istinto materno non sono gli occhi a cuoricino, è fare sì che la prole sopravviva. Secondo me ce la puoi fare”. Parole di assoluto buonsenso, che mi diedero molto conforto e non ho mai più dimenticato. Tutte le altre considerazioni fatte da madri (“Vedrai che quando nasce poi cambia”, “Ti passerà”, “Forse hai bisogno di sostegno psicologico”…) al confronto erano inutili, se non irritanti.
In ambito professionale – che si tratti di medici, educatori, maestri, psicologi – sono convinta che le competenze si acquisiscano con lo studio e l’esperienza, e che il vissuto personale della genitorialità non sia per forza un plus . Non a caso l’unica persona che, durante i miei due parti, è stata in grado di dirmi quando e come assecondare le spinte è stato un ostetrico uomo. Che la pediatra e le maestre (o i maestri, mi piacerebbe molto ci fossero delle quote azzurre nelle scuole dell’infanzia) dei miei figli abbiano a loro volta bambini mi è del tutto indifferente. Tuttavia c’è qualche argomento dove i punti di vista di chi ha figli e chi no non collimano.
La fatica
Non è che chi non ha figli non possa essere stanco, o che la sua stanchezza vada sminuita. Non sono di quelle madri che quando l’amica insegnante (senza figli) lamenta la mole di lavoro nel periodo degli esami risponde “Sapessi io”. Però.
Però a volte mi capita di pensarlo, lo ammetto.
Nel senso che avere un figlio non esenta magicamente da tutte le altre fatiche della vita. Se lavori, continui a lavorare (l’alternativa, perdere o rinunciare al lavoro, è di solito peggiore). Se devi fare due ore di traffico tutti i giorni continui a pendolare. Se hai genitori anziani di cui prenderti cura non ringiovaniscono. Se hai problemi di salute non passano. Semplicemente continui a fare tutto, ma senza riposarti quando torni a casa, dormendo meno ore per notte.
A un bambino di due anni non interessa se hai litigato col capo o hai una scadenza di lavoro, se sei molto triste o sei elettrizzata, se si è appena rotta la lavatrice, se la nonna è in ospedale o se o c’è traffico in tangenziale, se ti meriteresti proprio un paio di ore di sonno, una telefonata distensiva con un’amica, una cena in silenzio o una birra. Non sono piaceri che ti concederà, nemmeno se lo paghi. I suoi bisogni, almeno fino a una certa età, verranno sempre prima dei tuoi, non c’è modo di contrattare.
Il sonno
“Basterà un sorriso di mio figlio per cancellare la stanchezza”. Questa è una delle frasi più sceme dette da mio marito prima di diventare padre. Gliela rinfaccio ancora e ne ridiamo spesso. Ci sono anche i bambini che dormono fin dai primi mesi, davvero. Sono entità mitologiche delle quali ho sentito parlare. I miei no.
Anche qui: non è che chi non abbia figli dorma sempre 8 ore filate. Ma la deprivazione costante del sonno è un’altra cosa. Non è come fare tardi una sera e svegliarsi alle 6 la mattina dopo. Il sonno insufficiente e spezzato, prolungato per mesi se non anni, comporta più della banale stanchezza. Una mia amica, con un lavoro di una certa responsabilità, si è resa conto di avere spaventosi vuoti di memoria, di non ricordare conversazioni e decisioni prese un’ora prima. Altre conseguenze personalmente sperimentate: cattivo umore, irritabilità, difficoltà a mantenere la concentrazione, apatia. Se comincio con i discorsi pessimisti mio marito ha imparato a non prendermi sul serio: “È perché non hai dormito abbastanza, meglio che mi alzi io altrimenti sei intrattabile”.
Il tempo
In una delle sue autobiografie, Barack Obama racconta di quando – da senatore – riuscì a fare approvare una legge molto importante e la moglie Michelle – anche lei valente avvocato, ricordiamolo – al racconto di questo suo importante successo rispose qualcosa tipo: “Sì, bene, bravo, ricordati di comprare il latte per le bambine quando torni a casa” (cito a memoria).
Un passaggio che, prima di avere figli, non potevo dire di avere capito. Michelle Obama mi era sembrata un po’ fredda, quasi meschina. Invece funziona proprio così, anche se non si è senatori o presidenti. In questi anni io e mio marito abbiamo perso o trovato lavoro, subito lutti (epidemia compresa) e vissuto grandi gioie, ma niente come un figlio aiuta a relativizzare e a rimanere ancorati al presente: “Mi fanno un contratto migliore, cavolo sono finiti i pannolini”. Non posso dire che mi dispiaccia. Si ottimizza il tempo e si risolvono in pochi minuti affari che prima richiedevano ore, si impara a soprassedere, a incastrare, a eliminare il superfluo.
I bambini piangono
I neonati piangono, i bambini fanno i capricci, gli adolescenti sono oppositivi. Sono banalità, ma è bene ricordare che funziona così. Si tratta di comportamenti normali, talvolta da arginare o contenere, ma comunque normali.
Mia figlia piange nel passeggino, si dimena isterica. Cosa avrà? I passanti la osservano: poverina, avrà fame, sonno, caldo? Mi rivolgo alla platea: “Volete vedere una magia?”, dico. La prendo in braccio. Smette di piangere in meno di due secondi. Ridono tutti.
I bambini piangono, i cani abbaiano, i canguri saltano. Non fateci sentire strani.
Sul banco degli imputati
Chi non ha figli capisce benissimo e viste da fuori certe dinamiche familiari sono ancora più chiare: il bambino troppo protetto, quello trascurato, quello geloso o insicuro, il maleducato. Quel che chiediamo, al tribunale di chi non ha figli (ma anche di chi li ha) è di non essere giudicati da un episodio. Quel bambino che si getta a terra al supermercato, quel genitore distratto dallo smartphone, quello che vi disturba al ristorante o urla. Voi (noi) non sappiamo niente di loro. Possiamo lamentarcene, anche richiamare all’ordine, ma evitiamo di formulare giudizi trancianti.
Vale anche al contrario, ahimè. Se mio figlio vi saluta e vi ringrazia non significa che sia un bambino educato. Il giorno dopo potrebbe essersi alzato con la luna storta e rimanere muto. I bambini sono imprevedibili, preda delle loro emozioni. Molto spesso noi genitori ci sentiamo domatori: proviamo a indirizzare, a contenere, non sempre ci riesce. Ci rimaniamo peggio noi per primi.
Ero un genitore perfetto prima di diventarlo
Se vedete una madre intenta a scegliere il migliore filtro Instagram mentre suo figlio mangia la terra magari avvertitela, ma non giudicatela. Potrebbe essere una scema senza rimedio, ma potreste anche averla beccata negli unici due minuti della giornata in cui non è intenta a pulire manine, prendere in braccio, consolare, cullare, preparare pappine, fingere interesse a qualche giochino, inventarsi attività montessoriane con due rotoli di carta igienica e una molletta.
Non vogliamo per forza che i nostri amici si riproducano
Se vi mettiamo un neonato in braccio non è per farvi venire il senso materno o paterno. Siamo anzi dolorosamente consapevoli che il contatto ravvicinato con la nostra prole potrebbe eliminare ogni velleità riproduttiva. Se vi mettiamo un neonato o un bambino in braccio è una semplice richiesta di aiuto, assecondatela se potete. Siamo ben felici di avere anche amici senza figli, sia che amino i bambini (una serata con qualcuno che li fa giocare, che gioia) sia che non li amino (una serata senza minori, che gioia).
Il sesso degli angeli
Scambiavano sempre mio figlio per una bambina. “Sarà perché è molto bello”, ci dicevamo io e il padre per consolarci. La bambina la prendono spesso per un maschio. A volte l’ho vestita con le tutine del fratello, d’accordo. Ma la prendono per bambino anche quando è in tulle rosa: “Che bel giovanotto, quanto ha?” e indossa il pagliaccetto di Frozen con i brillantini.
Non è facile distinguere maschi e femmine sotto l’anno di età, ma per provare a evitare ogni imbarazzo tentate la carta del neutro: “Che bel bebè! Come si chiama?”, funziona sempre.
Vado al lavoro e mi riposo
Probabile che chi fa il minatore fatichi di più rispetto a chi sta a casa con uno o più bambini piccoli. Non lo so, non ho mai provato la miniera. Ma la maggior parte dei lavori (quindi non per forza lavori belli, appassionanti, gratificanti, ben pagati) di solito sono meno stancanti rispetto all’occuparsi di bambini.
Quel cliente rompiscatole non sarà mai fastidioso come mio figlio che mette i denti, quella collega logorroica avrà comunque una conversazione più varia e interessante di un bambino di tre anni, il riso colloso che mangio in mensa non l’ho cucinato tenendo in braccio un neonato urlante e lo degusto in sacrosanto silenzio. Per questo è generalmente una fesseria ritenere che i genitori (per meglio dire le madri) siano lavoratori meno efficienti. Di solito è il contrario perché per loro il lavoro è un’oasi di pace, un baluardo della vita adulta.
Non fiori ma opere di bene
Non sono le teorie educative che ci mancano, ma il tempo, la pazienza, la voglia, il sonno. Se vedete un genitore in difficoltà, e siete in confidenza, non dategli suggerimenti, offritegli una mano in qualche modo. Meglio un aiuto dato in modo goffo che una critica pedagogica espressa in modo sopraffino.
(Illustrazioni di Valenty)