Lo scorso anno, passeggiando davanti al sagrato di una chiesa con mio figlio – 4 anni al tempo – ci imbattiamo in un bel presepe, di quelli grandi, con il pagliericcio ad aspettare il bambinello, Maria, Giuseppe, l’asino, il bue, la capannuccia. Gli chiedo chi siano le figure rappresentate. Mi risponde serafico: «Una fata, uno gnomo, un bebè».
Lì ho capito che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che nemmeno io sapevo aggiustare, perché non essendo una buona cattolica mi viene difficile raccontare per bene la storia del Bambin Gesù. Con che tono dovrei farlo? Come una fiaba? Oppure col piglio storiografico di quando gli racconto dei popoli antichi? La verità è che avrei preferito ci pensasse qualcun altro al posto mio: una nonna che va in chiesa (manca) o l’insegnante di religione della scuola dell’Infanzia, che però non mi sembra troppo sul pezzo.
A prescindere dalla fede, non è possibile che Natale e Gesù siano concetti completamente scollegati fra di loro. Non voglio finire come la mia amica trasferitasi in Uk, che quando il bambino di 7 anni le ha chiesto «Who is baby Jesus?» e perché tutti ne parlassero si è messa a ridere. A me mette tristezza non sapere chi sia baby Jesus, indipendentemente dall’accoglierlo o meno come salvatore.
Quest’anno ho deciso che devo prepararmi per tempo per non lasciare mio figlio in balia di stimoli effimeri: un elfo qui, una luminaria là, «Jingle Bells» alla radio, un lavoretto scolastico sui buoni sentimenti, le pubblicità del pandoro, Babbo Natale dappertutto. Quest’anno avrò un approccio più sistemico al Natale. Ma come fare?
Cerco rifugio nei libri
Come sempre nella mia vita, cerco rifugio nei libri. Ci sarà per forza qualche bell’albo illustrato che sappia raccontare il Natale. Il primo che mi viene consigliato dall’algoritmo è «Natale nella stalla» di Astrid Lindgren. Bene, la cara vecchia autrice di Pippi Calzelunghe sento che non mi deluderà. L’incipit recita: «Si udì nel silenzio il pianto di un bambino appena nato. E, in quello stesso istante, si accesero tutte le stelle del firmamento».
Ottimo, mi sembra a fuoco. Sto per segnarmelo (io spulcio Amazon ma poi ordino in libreria, poco più che un vezzo, lo so) quando mi imbatto nella recensione di un utente entusiasta: «Un libro meraviglioso, delicato, poetico, con bellissime illustrazioni. Un libro che parla della nascita del natale, senza accennare a Gesù, Maria e Giuseppe o i re Magi, il bimbo di questo racconto potrebbe essere chiunque». Ma come il bambino potrebbe essere chiunque? Io volevo che mio figlio imparasse a distinguere Maria dalla fata turchina e Gesù dal fratellino del suo compagno di classe. Mi sa che devo buttarmi sulle Edizioni Paoline.
Va bene anche la televisione
Accantonati un attimo i libri, decido che per immergersi nell’atmosfera natalizia va bene anche un bel film di Natale. Netflix consiglia un titolo polacco: «David e gli elfi». Va bene, proviamo. Abituata ai kolossal americani rimango disorientata dai costumi, che mi paiono usciti dalla Melevisione. Anche l’estetica della moglie di Babbo Natale, un tripudio di extension bionde e fondotinta mattone, mi lascia perplessa. L’atmosfera però mi sembra sufficientemente festosa, al netto di quelli che immagino siano canti tradizionali polacchi malamente tradotti.
Non posso dire di stare seguendo attentamente la trama perché intanto sto preparando la cena, ma in sintesi l’elfo Albert è scappato nel mondo reale, dove fa amicizia col bimbo David. Trovo delizioso che i genitori di David, sentendo il bambino parlare del fantomatico elfo, pensino sia stato circuito da un pervertito. Sorrido meno quando il papà di Albert gli dice: «Ormai sei grande, devi sapere che Babbo Natale non esiste».
Babbo Natale non esiste? In un film per bambini? Sono sdegnata da quella che mi pare una mancanza di sensibilità tipica di un popolo che ha molto sofferto, al di là della Cortina di ferro. Mi affretto a dire ai miei bambini che quel papà sta evidentemente dicendo una bugia perché è arrabbiato. Capisco che non posso rinviare ulteriormente l’abbonamento a Disney+.
Santa Lucia
Una malinconia di mio padre, nato in Puglia, è la scomparsa della Befana, che nel giro di una generazione è stata completamente soppiantata da Babbo Natale. Come ama ricordare ogni Natale, a lui, da bambino, i regali arrivavano solo il 6 gennaio. «Qui a Bergamo siete più fortunati perché è rimasta Santa Lucia, che viene anche prima», aggiunge sistematicamente.
In effetti Santa Lucia è stata la magia della nostra infanzia, molto di più rispetto a Babbo Natale. A me né Gesù Bambino, né Babbo Natale portavano doni (e nemmeno la Befana risaliva lo Stivale). Ci pensava la Santa. Ma per funzionare veramente occorre creare una magia collettiva. Nei paesi Santa Lucia scende ancora per strada nelle sere d’inverno, al chiarore delle candele. La figlia seienne di una mia amica “l’ha vista” alla finestra e ne è rimasta molto impressionata. I vicini suonano il campanello per annunciarne il passaggio e quella è “la prova”.
A casa mia non mi è mai riuscito di creare un’atmosfera così coinvolgente, anche perché ci siamo rassegnati al fatto che passi pure Babbo Natale: il bambino ne sente parlare a scuola, in tv, dappertutto: come possiamo dirgli che non esiste, o che esiste ma da noi non viene? Agli occhi di mio figlio il pancione di rosso vestito – così universalmente presente, fisico, ridanciano – vince la sfida della memorabilità rispetto alla schiva Santa senza volto, che cammina in compagnia di un umile asinello e non volando su slitte trainate da renne volanti, elfi e quant’altro.
Per dare un segnale inequivocabile di quelle che sono le nostre preferenze, ho deciso che quest’anno porterò mio figlio, per la prima volta, a dare la letterina in chiesa alla Santa. Questo potrà aiutarlo a creare un legame o si impressionerà? Ne capirà il senso? Nel frattempo abbiamo fatto un voto: deve imparare a infilarsi da solo i calzini – compresi quelli lunghi, i più difficili – entro il 16 dicembre. Mi chiedo se non sto trasformando Santa Lucia in un’inflessibile maestrina.
L’attesa
Guardo con un misto di ammirazione e ripugnanza i social di amiche d’infanzia che si sono date all’ultima moda importata dagli Usa: l’elfo di Natale. Credo esista da anni, in realtà, ma io me ne sono accorta solo lo scorso Natale. Per i pochi che ancora non sapessero di cosa si tratta: è un elfo birichino che controlla che i bambini si comportino bene, si sposta durante la notte (sembra un film di Dario Argento, lo so) e ogni mattina si fa trovare in un posto diverso.
Ho scorso profili Instagram con foto stupende per luce, composizione e messa a fuoco che ogni mattina mostrano l’elfo spuntare dai cereali della colazione oppure alla guida di automobilina giocattolo o nascosto in frigo oppure persino sul water. Dovrei farlo anch’io? Mi manca il gene della mamma divertente e, dopo aver visto il film polacco, gli elfi mi stanno antipatici.
Ricordo ancora quando mia madre mi comprava il calendario dell’Avvento, da piccola. Era poco più di un foglio di carta, e la mia gioia era trovare dietro ogni finestrella un minuscolo disegnino di qualcosa di natalizio, spesso in stile vintage, con mille dolcissimi particolari, tipo slitte con campanellini o ghirlande intrecciate. Mi piaceva da morire. A volte cercavo di spiare i disegni vicini, ma mai avrei mai osato aprire una casellina prima del tempo.
Anche a mio figlio piace il calendario dell’Avvento, lo facciamo da un paio di anni, ma il suo ha sempre avuto un’estetica più rudimentale. È imbottito di cioccolatini, e ogni giorno è una lotta per prenderne solo uno. Per la verità, chi si cimenta con l’elfo di Natale spesso fa anche il calendario dell’Avvento home made, con 25 mini regalini: uno per giorno dal primo dicembre a Natale (da moltiplicare, immagino, per ogni figlio). Ma a quello rinuncio a priori, è evidente che non ce la posso fare. I calendari pronti del supermercato mi sembrano perfetti, anche per imparare bene a leggere i numeri.
Il tempo del desiderio
E comunque: non è solo mia pigrizia se non voglio fare il calendario dell’Avvento personalizzato. E nemmeno se non ho ancora comprato né ordinato i giocattoli. Se non ho trasferito l’albero di Natale dalla cantina alla sala, quando in casa Ferragnez è già allestito da due o tre settimane. Lo dicono tutti gli esperti che non bisogna anticipare i desideri dei bambini.
Il Natale è un’attesa, che permette di progettare e fantasticare. Non può essere Natale tutti i giorni, checché ne dica la canzone. Saper attendere è importante perché è proprio grazie all’attesa che si impara il senso del tempo (e magari anche l’uso del calendario), ad aspettare, a desiderare.
«Mamma, sono così emozionato» è fra tutte le frasi di mio figlio quella che mi gratifica di più. Di solito la dice quando aspettiamo ospiti a cena o quando deve andare a casa di un amico o fare qualcosa di molto eccitante. Appena prima che succeda qualcosa di bello. Spero la dica la notte di Natale, e pazienza se si confonderà fra elfi e pastorelli.