«Elsa» è il cartone animato preferito di mia figlia, e non l’ha mai visto. Un giorno è tornata dall’asilo nido cantando: «Resto quiiii non andrò più via» e io non capivo cosa dicesse, pensavo volesse rimanere a scuola. Mi ha spiegato: «È la canzone di Elsa», poi siamo andate a cercare su YouTube la colonna sonora e ne ho avuto conferma. Qualche mese dopo, le ho comprato il libretto del film Disney, perché almeno volevo conoscere la storia: mi è sembrata carina.
Non è stata una mia scelta educativa, quella di non farle vedere «Frozen». Semplicemente, tra i mille abbonamenti alla pay tv, non abbiamo mai fatto Disney+. Eppure, mia figlia di Elsa sa tutto ciò che c’è da sapere: che ha una sorella chiamata Anna e un pupazzo di neve di nome Olaf, che «fa le magie con il ghiaccio», che è bionda e coraggiosa. Lo ha scoperto senza il mio contributo, «da sola», o meglio: grazie al gruppo dei pari al nido. Elsa è un po’ la Taylor Swift delle treenni.
Noi genitori ci sopravvalutiamo
Per me è stata un’ulteriore conferma di quanto noi genitori sopravvalutiamo il nostro ruolo, illudendoci di indirizzare molto precisamente i nostri figli verso alcuni consumi culturali, idee, valori, abitudini. Mentre sottovalutiamo il ruolo inevitabile dell’epoca, del mondo esterno, degli altri. Io leggo a mia figlia la «Pimpa», «Il Mago di Oz», «Pippi Calzelunghe» e altri libri bellissimi, ma la sua eroina diventa Elsa, che non le ho nemmeno mai nominato.
È un pensiero al contempo inquietante e rassicurante: non è tutto «merito» nostro e non è tutta «colpa» nostra quello che accade ai nostri figli. Non è una scusa per sfuggire alle responsabilità genitoriali – noi comunque, entro certi limiti, vigiliamo: se «Frozen» mi fosse sembrato un contenuto inaccettabile l’avrei boicottato (con quali risultati? Chissà) – ma abbiamo meno controllo di quanto pensiamo. Ed è un bene, credo, considerato che siamo costantemente spinti a una supervisione totale delle vite e delle menti dei nostri bambini.
Il job-title di mamma e papà
Laddove un tempo era previsto semplicemente che il padre portasse i soldi a casa e la madre si occupasse della cura, ora i compiti dei genitori sono più condivisi (meno male), ma anche molto aumentati, mentre il numero dei bambini è crollato.
Il “job-title” del genitore si è incredibilmente allungato negli ultimi decenni. Un buon genitore, oggi, dovrebbe: educare con autorevolezza, ma nel rispetto del bambino (no scapaccioni, no ciabatte, no urla), occuparsi del suo sviluppo affettivo e cognitivo, fare public relations e pianificare la sua socialità (spesso si tratta di figli unici, non facciamoli sentire soli), curare l’organizzazione casalinga, la gestione del tempo, le attività sportive, scolastiche ed extrascolastiche, dare ripetizioni, fare il tassista, il segretario, il responsabile RSPP e vagliare ogni aspetto della sua sicurezza (dal corretto taglio dei pomodori alle ultime novità in fatto di seggiolini auto), non perdere mai il figlio di vista (ricordate i nostri pomeriggi a giocare liberi a nascondino, vicino casa? Una follia, ora).
Il diritto alla privacy (e al rischio)
Eppure, anche i bambini hanno diritto ai loro spazi, fisici e mentali. Questo comporta una percentuale di rischio, che è ineliminabile dalla nostra vita (e dovremmo farcene una ragione). Così come ha scoperto «Frozen», mia figlia poteva scoprire i «Me contro Te», per me il peggio in materia di influencer per l’infanzia.
Lo scorso pomeriggio stavo tornando a casa a piedi con i bambini e le borse della spesa; mentre aspettavamo il verde al semaforo una signora mi dice: «Non dà la mano al bambino? È pericoloso». Le ho risposto che mi fido di lui. La spiegazione più lunga e pedagogica è che mio figlio ha sette anni, e penso che in prospettiva sia più pericoloso non insegnargli ad attraversare la strada da solo piuttosto che non tenerlo sempre per la manina. La spiegazione più breve e pratica è che avevo la spesa in mano.
I bambini, proprio come tutte le altre persone, hanno diritto ai loro spazi, ai loro giochi in solitaria (senza che gli adulti intervengano), alla loro socialità, ai loro miti, ai loro segreti, a non condividere tutto, a non essere costantemente indirizzati, stimolati, manovrati. La buona notizia è che questo è riposante, per noi genitori. Lasciare andare dovrebbe essere il nostro obiettivo, dato che siamo costantemente sottoposti a richieste che vanno in direzione contraria («Lo segua di più nella lettura», «Invoglialo a mangiare la verdura realizzando un “simpatico” pupazzo con le zucchine e le carote», «Compra questo gioco montessoriano in puro legno di frassino», «Tuo figlio ha avuto un diverbio con un compagnetto? Presto prendi contatto con i suoi genitori per discuterne e chiarirvi fra adulti»).
La schizofrenia del controllo
Il controllo totale è l’opposto dell’educazione, perché non insegna l’autonomia e il dominio di sé. Inoltre, è sempre illusorio. Come si comportino i nostri figli fuori casa non lo possiamo controllare, e neanche “sapere”. Ci può essere riferito, e spesso è fonte di sorprese.
Senza contare che c’è un’ossessione alla sicurezza “fisica” dei bambini, per cui – ad esempio – non averli costantemente sott’occhio mentre giocano ai giardinetti sembra una imperdonabile mancanza, mentre si sottovalutano ancora platealmente i pericoli degli schermi e dei minori sui social e la loro pesantissima influenza sull’immaginario e la percezione di sé.
Una scaramantica forma di umiltà
Ogni volta che sento un genitore vantarsi perché il figlio ascolta rock classico invece della trap, perché ama leggere e disdegna la tv, perché ha boicottato i «Me contro te» in favore di Alberto Angela penso sempre, senza dirlo: «Attento a non portarti jella da solo, ché come minimo tuo figlio finisce a fare il tronista». Umiltà, bambino.
È compito nostro di genitori proporre, indirizzare, anche vietare. Ma il controllo assoluto di come saranno i nostri figli non lo avremo mai, nel bene e nel male. Accettarlo aiuta a essere meno giudicanti con gli altri, vale per la trap e vale anche per cose più serie: dal rendimento scolastico al rispetto delle regole. Un mio caro amico insegnante mi ha raccontato sconvolto di un suo ex alunno finito al carcere minorile. Era un ragazzo da cui non se lo sarebbe mai immaginato, e si arrovella: «Avrei potuto fare di più?», anche se l’ha avuto in classe solo un solo anno, quando era poco più di un bambino.
Invidio la certezza di quei genitori che sanno che i loro figli non faranno mai nulla di grave, non si ficcheranno mai in situazioni pericolose e sbagliate, non abuseranno di sostanze, non faranno mai del male al prossimo. Faccio di tutto perché questo non debba mai accadere. Ma posso dire di averne la certezza assoluta? No. Non lo do per scontato.
Un lavoro che non possiamo fare da soli
Se vogliamo che i nostri figli crescano colti, curiosi, fiduciosi, gentili, rispettosi, dobbiamo mettere in conto che serve un ambiente che promuova questi valori. Se in famiglia cerchiamo di valorizzare la gentilezza e la cooperazione, ma a scuola o nel gruppo sportive prevale il concetto di competizione e performance, è facile che i nostri figli si adeguino agli standard sociali.
Lo stesso accade con i consumi culturali: possiamo (e dobbiamo!) fare ascoltare ai nostri bimbi Elliott Smith, Vini Reilly, Bruce Springsteen, ma se i loro amici cantano «Sesso e samba», i nostri bimbi canteranno «Sesso e samba». Per carità, possiamo (e dobbiamo!) cambiare stazione radio e boicottare, ma è impossibile che le orecchie dei nostri figli rimangano “vergini”, è impossibile sottrarsi all’epoca. Più che rinchiuderci in una torre d’avorio la soluzione e l’opposto: condividere. Proporre di portare i bambini e i loro amici a teatro, in biblioteca, ad ascoltare i nostri dischi. Dare più spazio al lato pubblico e sociale dell’educazione.