Appartengo a una generazione che è andata in macchina senza allacciarsi le cinture (fino al 2006 non erano obbligatorie sui sedili posteriori), in locali dove tutti fumavano, anche in faccia ai bambini (fino al 2003 si fumava al chiuso dappertutto). Alle medie avevo un professore di educazione tecnica – ma questo è un aneddoto personale – che ci vietava di usare il temperino e ci faceva fare la punta alle matite col taglierino a mano libera (oggi lo arresterebbero, credo, ma all’epoca maneggiare lame in classe ci piaceva parecchio).
Eppure niente di tutto questo è pericoloso quanto dare ai bambini uno smartphone personale. Un pericolo oggettivo e vistoso, supportato da una mole di dati scientifici che ci dicono come l’introduzione troppo precoce di queste tecnologie interferisce con il processo di crescita cognitiva, affettiva e relazionale, oltre a danneggiare la salute mentale dei ragazzi. Senza parlare del rischio di cyberbullismo e pedopornografia, sempre presente.
Un pericolo di fronte al quale da adulti e genitori ci sentiamo impotenti, quasi come se fosse la crisi climatica: qualcosa di ineluttabile, davanti al quale noi singoli contiamo troppo poco per fare qualcosa. Eppure qualcosa da poter fare ci sarebbe, ed è anche molto semplice: non concedere lo smartphone almeno fino alla terza media.
«Aspettando lo Smartphone»
È la proposta di « Aspettando lo Smartphone », progetto di educazione e sensibilizzazione per lo sviluppo di una maggiore consapevolezza digitale che si sono inventati due genitori di Milano: Stefano Boati e Anna Garavini. Medico lui, nel marketing lei, amici da tempo, lo scorso anno – con due figli entrambi in quinta elementare – si sono posti il problema di trovare altri genitori che, come loro, non volessero dare uno smartphone personale ai loro figli.
Com’è andata a finire? Non benissimo: «Nella prima media di mio figlio lui è l’unico senza smartphone» racconta Anna, mentre Stefano considera un successo il fatto che nella classe della figlia ben 9 compagni su 25 siano senza.
Eppure da lì è germogliato un seme, e i due hanno attivato un progetto che è stato accolto da molte scuole coinvolgendo anche il Comune di Milano e l’Università Bicocca. Stefano Boati e Anna Garavini presenteranno la loro iniziativa il 24 maggio alle 20.30 a Bergamo su iniziativa dell’Associazione Genitori Savoia, insieme a Marco Gui, direttore di «Benessere Digitale». Un incontro gratuito e aperto a tutti senza prenotazione, che potrebbe davvero aiutare a incontrare altri genitori sensibili al tema per fare qualcosa di concreto insieme.
«Il segreto è partire molto presto, già dalla terza elementare. Serve attivarsi fra genitori di compagni di classe, di squadra, di oratorio, di scout o altre associazioni e mettersi d’accordo per sensibilizzare la propria rete sociale» spiega Anna. L’aspetto territoriale è importantissimo, perché per essere efficace il progetto deve essere condiviso dai genitori degli amici dei nostri figli, almeno alcuni.
«Eh ma ce l’hanno tutti»
Questo risponde anche all’obiezione: «Lo smartphone ce l’hanno tutti, non voglio che mio figlio rimanga escluso». «Sono molti i genitori che incontriamo e hanno le nostre stesse perplessità sul fatto di dare lo smartphone ai bambini, ma non osano esprimerle perché pensano di essere i soli e che il loro figlio rimanga isolato, invece è possibile decidere di fare fronte comune» spiega Anna. «Siamo genitori normali, non particolarmente “fissati” o che vogliono negare la tecnologia e tornare nelle caverne. Infatti, il progetto si chiama “Aspettando lo Smartphone” perché prima o poi il telefono arriverà, ma solo quando i figli avranno raggiunto un minimo di maturità necessaria».
Lo scopo è fare argine insieme per resistere alle pressioni dei figli e della società, davanti a obiezioni quali «poi il bambino non socializza» oppure «sono nativi digitali, come puoi togliergli lo smartphone» o anche «non possiamo tornare nel Medioevo».
«A chi dice che poi il bambino viene escluso vorrei mostrare una qualsiasi chat di decenni: non c’è dialogo, è un semplice sterminato elenco di emoticon, gif, faccine, capace di andare avanti per ore» racconta Anna, che sottolinea come le competenze digitali non si acquisiscano tramite l’uso compulsivo degli schermi, ma attraverso l’educazione.
Senso di protezione a doppio binario
L’altra “scusa” per concedere lo smartphone senza troppi sensi di colpa è: «ma va a scuola a piedi, sta in giro, se succede qualcosa come fa». Per questo evenienza basta e avanza un semplice telefono portatile non connesso a Internet: esistono ancora. «La verità è che lo smartphone si usa al 90% per i social, e i bambini non dovrebbero stare sui social» commenta Stefano Boati.
Il dramma è che ai ragazzini attorno ai 10 anni di età non è più concesso – per la loro sicurezza – di stare da soli al parco con altri bambini, di essere mandati a comprare il pane o di andare da soli in bici all’allenamento di calcio. «Invece, una volta che il figlio è sul divano di casa, il genitore è tranquillo e non pensa che corra pericoli per il solo fatto di avere uno smartphone in mano, col quale non sa neanche bene cosa stia facendo» sintetizza Anna.
Il falso mito della regolamentazione
Stefano Boati, come detto, è un medico e ritiene che l’esposizione precoce allo smartphone sia un problema di sanità pubblica: «Gli esperti lo dicono da anni che fa male, non sta nemmeno a noi spiegare il perché. In questo momento noi genitori dobbiamo metterci una pezza, ma io mi auguro che fra qualche anno siano già i pediatri durante le visite filtro a dare indicazioni in questo senso. Negare lo smartphone fino a una certa età dovrebbe essere come evitare di dare lo zucchero nel primo anno di vita o mettere i neonati a dormire a pancia in su o sapere che bisogna aspettare 18 anni per prendere la patente».
Prima di una certa età lo smartphone va negato, senza compromessi. Poi bisogna rispettare delle regole, anche queste semplicissime: niente uso dei device a tavola né a letto (cosa che vale a prescindere da qualsiasi età) e rispetto dell’età legale per stare sui social, solitamente i 13 anni. Una norma spesso e volentieri disattesa, nell’indifferenza generale.
«Dare uno smartphone in mano a un undicenne e pensare che si regoli da solo è come mettergli un frigorifero in camera pieno alcol e cibo spazzatura e poi dirgli: mi raccomando usalo responsabilmente e prendi solo le carote. Non ha nessun senso» commenta Stefano, svelando quella che è un’ipocrisia diffusa.
Salvare le relazioni
L’altro giorno ero a pranzo con un amico insegnante, che ho visto sconfortato come mai prima d’ora. È venuto a sapere che, nella chat degli alunni della prima media in cui insegna, hanno deciso di eliminare un ragazzino con forti problemi di vista, perché sbagliava nel digitare i messaggi. Una compagna di classe si è fatta promotrice di un sondaggio online per vedere quanti compagni fossero d’accordo nell’escluderlo: la maggior parte.
«Sarebbe facile prendersela con la ragazzina “bulla”, ma in realtà sono vittime anche loro, sono troppo piccoli e non si rendono conto della gravità dei loro gesti. Fosse per me negherei per legge l’accesso libero a internet per i minori di 18 anni» mi racconta amareggiato. Mi parla delle relazioni sempre più difficili di una generazione che si sente sempre sottoposta al giudizio degli altri e in diritto di giudicare a sua volta, esposta sui social a una versione patinata della realtà, con problemi di ansia sociale, gestione del tempo e rendimento scolastico.
Bisogna tornare a coltivare le relazioni offline, anche se è più impegnativo per tutti: «Anche se è l’unico senza smartphone, mio figlio è integrato lo stesso – racconta Anna Garavini – Non bisogna delegare a WhatsApp la costruzione delle relazioni. Ad esempio, ho insistito perché facessero l’asta del Fantacalcio dal vivo e ho ospitato a casa i suoi compagni».
Una comunità che educa
In questo contesto l’impegno delle singole famiglie non è sufficiente: l’esperienza ha mostrato che solo una comunità unita (genitori, scuole, pediatri, istituzioni, oratori, scout, società sportive, cooperative sociali e altri contesti educativi e di vita comune), che fa squadra attorno alle famiglie, può sperare di avere successo. «Noi buttiamo la patata bollente, poi nella realtà locale serve che uno si prenda la briga di organizzarsi: non serve essere in tanti, serve costruire delle micro reti» spiega Anna.
Il progetto è rivolto anche alle scuole per affermare il concetto che non è scontato che ragazzini dei primi anni della secondaria abbiano accesso allo smartphone. «Ad esempio, un bambino delle elementari dovrebbe poter sapere quali sono i compiti assegnati senza dover consultare il registro elettronico tramite un device del genitore. Allo stesso tempo capita a volte che siano gli stessi insegnanti a proporre la chat WhatsApp di classe, non dovrebbe funzionare così» prosegue Anna.
Quando i ragazzi ricevono messaggi incoerenti dal mondo degli adulti rimangono disorientati e possono “approfittarsene”. Le alleanze sono fondamentali per guidare i ragazzi, ma al tempo stesso sono faticose perché richiedono impegno e disponibilità ad accogliere il punto di vista degli altri adulti per trovare dei punti comuni. Ma è l’unico modo per promuovere un cambiamento e non rassegnarsi al «tanto funziona così», che sempre più danni sta facendo.