Questo articolo doveva essere diverso. Io e l’ottima Alice Brioschi – esperta di letteratura per l’infanzia – avremmo dovuto parlare del libro di cui è curatrice «Non sei il tuo senso di colpa – riflessioni contro il mito della “supermamma”» (Prospero Editore), che verrà a presentare al MAITE (Città Alta, Vicolo Sant’Agata, 6) venerdì 13 maggio alle 19, insieme a una delle co-autrici del volume, Martina Borsato.
Poi, però, proprio il giorno in cui io e Alice ci siamo sentite, ha parlato Elisabetta Franchi e le nostre priorità sono cambiate. O meglio: le esternazioni dell’imprenditrice sono un’occasione troppo ghiotta per non parlare più compiutamente di senso di colpa al femminile.
Il senso di colpa delle donne (tutte)
Il senso di colpa non riguarda solo le madri, ma tutto il genere femminile. Come ricorda Elisabetta Franchi noi donne – almeno prima degli “anta” o comunque fino a che il nostro utero è attivo – siamo bombe a orologeria, ontologicamente “colpevoli” di avere la possibilità di procreare (e quindi di conseguenza, deboli e inaffidabili). La sensazione di essere sempre e comunque in difetto, di doverci scusare per avere un utero, ce la portiamo cucita addosso.
Qui il video completo dell’intervento della Franchi, per chi se lo fosse perso:
Lo riassumo in punti salienti per chi non avesse lo stomaco per guardarlo tutto:
- Elisabetta Franchi non assume in ruoli dirigenziali donne prima degli “anta”, perché se poi rimangono incinte è un casino;
- Invece dopo che si sono sposate, hanno figliato e magari pure divorziato sono più libere. Così possono lavorare per lei h24;
- Lei comunque ha fatto due figli, ma col cesareo programmato, e il giorno dopo era al lavoro con i punti;
- I suoi figli le piacciono, ci gioca nel weekend;
- Si sa che comunque i figli li fanno le donne e che sono sempre le donne ad «accendere il camino in casa». Gli uomini sono tutti dei bambinoni (giù risate)
«Una narrazione tossica, che però ha un grande merito: è sincera», commenta Alice Brioschi. Nel suo essere – involontariamente – politically incorrect Elisabetta Franchi dà voce a un pensiero che è di molti, donne comprese.
Un pensiero davvero molto difficile da scardinare e che avrà bisogno, credo, del contributo di diverse generazioni per essere sovvertito. L’unica mia consolazione è quella anagrafica: classe 1968, Elisabetta Franchi ricalca un immaginario di donna in carriera degli anni ’80. Le sue future nipoti faranno meglio, e anche i nipoti maschi (magari meno “bambinoni”).
La maternità come potenza
La tentazione, quando qualcuno esplicita il “Franchi-pensiero” (che è diffuso, diffusissimo) è, ancora una volta, quella di giustificarci. Provare a dimostrare come «noi donne» possiamo «avere tutto» se ci impegniamo fortissimo. Oppure lamentarci perché siamo lasciate sole (dai maschi, dallo Stato).
Il modello cui sforzarsi di aderire è sempre quello maschile, non è un caso che Elisabetta Franchi parli di sé come «imprenditore»: «Per darsi autorevolezza ricorre al linguaggio maschile, perché solo il maschio è in una posizione di potere indiscussa, solo a lui nessuno chiederà mai se vuole fare figli o, se li ha, di occuparsene», commenta Alice Brioschi. Così, allo stesso modo, la donna “matura” che ha passato gli “anta” non viene apprezzata di per sé, per la sua esperienza e le competenze acquisite, ma perché il suo utero non è più produttivo (e quindi, seguendo questa logica insana, assomiglia di più a un maschio).
Finché il modello è questo, non c’è stato sociale che tenga. Saremo sempre in una posizione di minorità, come ho raccontato anche qui. Per fortuna qualcuno – fra cui Martina Borsato, che lavora per Lifeed , anche lei a Bergamo il 13 maggio – comincia a dire che la maternità non è una diminuzione delle facoltà intellettive e lavorative della donna. Ma che può essere addirittura il contrario: «Ho imparato a essere più produttiva, mi sono resa conto di tutto il tempo che sprecavo senza accorgermene – racconta Alice Brioschi – Con la maternità di sviluppano competenza trasversali utili anche sul lavoro, come il problem solving, la propensione all’ascolto. E non è nemmeno tanto probabile che una donna con una gravidanza “sparisca due anni”, io e molte altre saremmo uscite di senno».
Come la facoltà di dare la vita sia diventata sinonimo di debolezza, invece che di potenza, può forse essere spiegato con la storia e l’antropologia. Ciò che ci raccontano i numeri della crescita zero in Italia è che – se per diventare madri bisogna rinunciare a essere persone – molte preferiscano non farlo.
Ma quindi, il libro com’è?
«Non sei il tuo senso di colpa – riflessioni contro il mito della “supermamma”», con postfazione di Giorgia Cozza, raccoglie i contributi di diverse professioniste (alcune madri, altre no) su diversi aspetti della maternità, dalla sociologia alla sostenibilità, dal baby wearing alla pedagogia.
Racconta Alice Brioschi: «Il libro è nato da una mia emozione personale, durante il lockdown del 2021, quando chiusero le scuole e mi svegliavo alle 4,30 per lavorare. Ero a un passo dal burn out perché mi sembrava di lasciare indietro pezzi di me. Mi sono accorta di quanto le mie aspettative fossero diverse, pensavo che sarei stata una madre più felice e allegra. Invece viviamo tante emozioni negative, compreso il senso di colpa interiorizzato ed esteriorizzato: come fai sbagli, perché avresti potuto fare ed essere di più. Con il libro vogliamo dare una narrazione più veritiera e ammettere che si possa essere non essere felici o in difficoltà, senza essere sbagliate o incompetenti. A questo malessere contribuiscono i social, con un confronto costante che da un lato ti sminuisce, dall’altro vuole pomparti a offrire la migliore immagine di te».
Ognuna delle autrici contribuisce con il proprio mattoncino, nella sua area di competenza, a dare una narrazione diversa. Ad esempio, Alice Brioschi, parla di come gestire le emozioni negative attraverso i libri: «Non trovo corretto che il bambino sia autorizzato a provare la rabbia e la mamma no, per questo trovo “Urlo di mamma” (Jutta Bauer, Nord-Sud edizioni) un libro fondamentale. Sempre sul tema degli scontri consiglio “Ti voglio bene anche se…” (Debi Gliori, Mondadori), il nostro libro del cuore, scritto in un linguaggio filastrocca, che aiuta il bambino a farsi sentire ascoltato. L’importante è che sia i figli sia la società capiscano che siamo persone».