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Cinque “manuali” letterari per crescere un figlio

Articolo. Cosa succederebbe se oltre ad affidarci a pedagogisti, educatori e psicologi chiedessimo aiuto agli scrittori per capire come educare un figlio? I risultati potrebbero essere sorprendenti. Forse non ne ricaveremmo grossi consigli pratici, ma una visione più alta di quello che è il nostro ruolo sicuramente sì

Lettura 5 min.

Premessa: parlo di cinque libri che ho letto, che mi sono piaciuti e che consiglierei a prescindere da ogni valutazione pedagogica. Ogni lettore e ogni lettrice, ogni madre e ogni padre, ne può consigliare altri e di sicuro anche a me verranno in mente nuovi titoli. Fine della premessa.

Vi capita mai, leggendo, di pensare: «È proprio così!»? A me spesso, e ho preso nota di qualche libro in cui la “rivelazione” è stata di natura pedagogica o educativa. Spero che possano essere da spunto per altri, sia come consigli di lettura sia per le riflessioni che portano.

«Le piccole virtù», Natalia Ginzburg

Natalia Ginzburg è una grandissima scrittrice, che al piacere e al talento del racconto unisce idealismo, senso del tragico e anche del comico. Con «Le piccole virtù» (si trova pubblicato da Einaudi, raccolto insieme ad altri saggi e racconti) in poche pagine dice la sua sull’educazione dei figli, dandoci una prospettiva ideale di cosa dovrebbe essere la formazione della persona umana. Non ideale perché avulsa dalla realtà, al contrario, ma perché animata da una fervida passione civile, a cominciare dall’incipit:

«Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore per la verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere».

È un testo che, sebbene abbia 60 anni tondi, dà ancora oggi molti spunti concreti sull’educazione dei ragazzi. Sentite, ad esempio, cosa dice della scuola:

«Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo (…) li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi».

Non è un brano illuminante, in un’epoca in cui si esalta la performance fine a sé stessa?

«Pimpì Oselì», Elena Giannini Belotti

Sono tantissimi i temi pedagogici all’interno di «Pimpì Oselì» (lo trovate edito da Feltrinelli), forse il romanzo più conosciuto dell’autrice di «Dalla parte delle bambine», testo importantissimo per il femminismo italiano.

Anche in questo romanzo, ambientato durante il ventennio fascista fra Roma e la Val Seriana, si tratta il tema dell’educazione di generePerò è meglio non farle studiare troppo, le bambine, tanto si sposano, e cosa ci fanno con l’istruzione? Per quel che serve a mandare avanti la casa e allevare i figli, basta un modesto titolo di studio, se no chissà che grilli si mettono per la testa. Non devono mica lavorare per guadagnarsi la vita, le donne»), dei metodi educativi durante il fascismo, degli effetti di una società repressiva sulla psiche dei piccoli.

Ma quello che trovo più attuale è il confronto fra i metodi educativi della madre – maestra severa e autoritaria – e il padre, dolce e disponibile nei confronti dei due fratellini protagonisti del libro. Una situazione insolita, specie per l’epoca, con la moglie “capofamiglia” che mantiene tutti col suo lavoro di insegnante e il marito rimasto a Roma. Le domeniche col papà sono una festa: si dorme fino a tardi, si va a passeggio. La mamma butta tutti giù dal letto presto, apre le finestre, l’unico svago è la Messa.

«Fannulloni, fa negòt – inveisce la mamma – Lazzaroni, viziati che non siete altro, grandi e grossi come siete bisogna ancora starvi dietro cose se aveste due anni, ve la faccio passare a suon di sberle la voglia di stare con le mani in mano (…). Qui non c’è vostro padre che vi lascia fare baldoria quanto volete, in un anno con lui avete disimparato tutte le buone abitudini, ma adesso è arrivato il castigamatti».

Leggendo il libro la simpatia va tutta al padre, eppure – adesso che ho figli - c’è una parte di me che capisce la fatica di quella madre e pensa che alla fine il suo ruolo sia ben difficile. Quanto permettiamo alle difficoltà quotidiane di invelenire il nostro rapporto con i bambini? E quanto abbiamo una strategia educativa condivisa fra genitori?

«Il seggio vacante», J.K. Rowling

Per me «Il seggio vacante» è il miglior romanzo di J.K. Rowling, non me ne vogliano i fan di «Harry Potter» (lo sono anch’io). Uscito dieci anni fa (lo trovate edito da Salani), è ambientato nell’apparentemente idilliaca cittadina inglese di Pagford.

Rowling è una maestra nel tratteggiare la psicologia dei personaggi e all’interno di questo denso romanzo riesce a raccontare il bullismo fra adolescenti sia dalla parte della vittima sia da quella del carnefice, senza alcuna semplificazione, ma anche senza sconti per nessuno, con una profondità di osservazione che può essere molto utile a chi ha figli in età scolare (o a chi lavora con i ragazzi). Molto ben riuscito anche il suo ritratto di situazioni di marginalità, specie nella figura di Krystal, figlia di madre tossica e vittima designata, in un mondo che non la capisce e non le sa dare strumenti per aiutarla. Commovente il finale. Ne è stata tratta anche una miniserie della BBC.

«L’educazione», Tara Westover

Le famiglie dei grandi romanzi sono spesso disfunzionali, ma quella di Tara Westover (classe 1986) lo è in modo particolare. Il libro, edito in Italia da Feltrinelli, è un memoir che racconta della sua infanzia e adolescenza trascorse isolata nelle montagne dell’Idaho in una famiglia di mormoni survivalisti: «Ho solo sette anni, ma so che è questo, più di ogni altra cosa, a rendere diversa la mia famiglia: noi non andiamo a scuola. Il papà ha paura che lo Stato ci costringerà ad andarci, ma è impossibile perché lo Stato non sa di noi. Dei sette figli dei miei genitori, quattro non hanno un certificato di nascita. Non abbiamo libretti sanitari perché siamo nati in casa e non abbiamo mai visto un dottore o un’infermiera».

Direte: cosa abbiamo da imparare, noi genitori ordinari, da un libro così estremo? Due cose, riassumibili in una: i nostri figli non sono nostri, appartengono al mondo. Questo è un pensiero consolante se pensiamo alla biografia della scrittrice, che ha saputo emanciparsi dalla famiglia proprio grazie all’educazione, intesa come istruzione: la scuola, per intenderci, cui faticosamente Tara riesce ad accedere già “grande” (scoprendo a 17 anni cosa fu l’Olocausto, ad esempio). Ma credo possa essere un pensiero positivo a tutti i livelli, quando capiamo che non possiamo avere il pieno controllo di ciò che fanno, pensano, dicono i nostri figli. E quando ci rassegniamo al fatto che quello che a loro serve non sempre e non necessariamente si trova all’interno della famiglia.

«Espiazione», Ian McEwan

Veniamo alla “quota azzurra” di questo elenco, probabilmente il più rilevante fra gli scrittori inglesi viventi. Il tema dell’infanzia è centrale nell’opera di Ian McEwan (tutta pubblicata da Einaudi), a partire da «Il giardino di cemento» (1980). Sono libri profondamente disturbanti, ambientati quasi sempre in un universo domestico chiuso ed asfissiante, dove sono i soli membri della famiglia a intervenire e dove nascono i comportamenti lesivi dei giovani protagonisti. Mancando l’affetto di un nucleo familiare, i figli crescono senza esempi d’interazione sociale, di empatia, di cooperazione, di comprensione, con danni drammatici per la loro formazione.

La solitudine, l’assenza dei genitori e la libertà immaginativa dei bambini sono al centro anche di «Espiazione» (2001) che propongo perché affronta – fra gli altri – il tema delle bugie dei bambini. Il nucleo del romanzo – e la colpa da espiare della protagonista, Briony – ruota attorno a una bugia terribile della ragazzina, collegata a un episodio di violenza. Ne è stato tratto anche un buon film diretto da Joe Wright, nel 2007.

Quanto bisogna credere ai bambini? I bambini dicono sempre la verità? Come distinguere fra immaginazione, realtà e finzione? Le risposte che dà McEwan non sono rassicuranti, ma aiutano a fare chiarezza su alcuni meccanismi e a tenere presente il principio di cautela.

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