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Cambiano i voti, ma la scuola no

Articolo. I voti alla Primaria sono cambiati: non più “avanzato”, ma “ottimo”, non più “in via di prima acquisizione”, ma “insufficiente”. I sistemi di valutazione sono non solo una questione didattica, ma di scontro ideologico. Il rischio è quello di mettere in ombra l’unica cosa che conta: la qualità dell’insegnamento.

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Da quando andavo a scuola io ho perso il conto di tutte le volte che è cambiato il sistema di valutazione. Alle medie (non si chiamavano ancora secondarie di primo grado) usavamo le lettere A B C D E, dal massimo al minimo, ma ricordo anche di avere usato voti come ottimo, distinto, buono, sufficiente, insufficiente. Nel frattempo, al Governo abbiamo avuto Maria Stella Gelmini che ha reintrodotto i voti numerici alle elementari, sostituiti da Lucia Azzolina con quattro livelli di apprendimento: avanzato, intermedio, base, in via di prima acquisizione. Ora le valutazioni cambiano ancora: «Basta con le definizioni incomprensibili tipo “avanzato”, “intermedio”, “base”, “in via di prima acquisizione”. Al di là del giudizio analitico, vogliamo che alle elementari le valutazioni siano chiare, semplici: ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente, gravemente insufficiente», dice l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara.

In 30 anni che assisto a questi cambiamenti, ho capito bene o male come funziona: governi “di destra” (le virgolette indicano una necessaria approssimazione) che si appellano al rigore e alla tradizione vogliono voti il più possibile vicino a quelli numerici. Governi “di sinistra” che vogliono privilegiare l’aspetto pedagogico amano di più le valutazioni. I voti sono un terreno di scontro ideologico. Spiace che in tutto ciò abbiano poca voce in capitolo gli insegnanti, che mi sembrerebbero i più titolati a decidere come valutare.

Ma è meglio buono o discreto?

I voti, per quanto pretendano di essere “chiari e oggettivi”, hanno sempre un forte impatto emotivo “soggettivo”. Un “6” preso alle superiori (pardon, secondaria di secondo grado) può essere un grande successo, specie in alcune scuole e in alcune materie. Un “6” preso alle elementari ci fa pensare che nostro figlio sia un bambino non troppo sveglio.

Esprimere valutazioni in modo non umiliante è meno importante di esprimerle in modo chiaro? “In via di prima acquisizione” sembra meno allarmante di insufficiente, “base” più completo di “sufficiente”. Viceversa discreto e buono mi suonano meglio di “intermedio”. Ottimo e avanzato ci fanno sempre tirare un sospiro di soddisfazione.

Nella lingua di tutti i giorni “buono” e “discreto” si equivalgono: abbastanza bene, potrebbe essere meglio. Ricordarsi quale fra i due è il voto migliore per me è difficile, devo andare sempre a controllare la griglia di valutazione. Mi lascia perplessa anche “distinto” (si userà ancora?), un aggettivo che ho sempre associato a una persona ben vestita, dai modi formali, mai a una valutazione.

A cosa servono i voti

Gli amanti del rigore e della tradizione temono che senza voti non ci sarebbe impegno, sarebbe il caos e l’anarchia. Non ci sarebbe meritocrazia. A loro dedico questo brano di Rodari:

«-Giocheremo alla scuola. lo ero la maestra e tu la scolara. Questo era il quaderno. Tu sbagliavi tutto il dettato e io ti mettevo quattro.
- Cosa c’entra il numero quattro?

-C’entra, sì. È così che fa la maestra a scuola. A chi fa bene, dieci; a chi fa male, quattro.

- Perché?

-Perché così impara.

- Rifletti. Ci sai andare in bicicletta? Certo! E quando stavi imparando e cascavi, ti davano un quattro, oppure ti mettevano un cerotto? Pensaci un momento, su. Quando imparavi a camminare e facevi un capitombolo, forse la mamma ti scriveva quattro sul sedere? No. Ma a camminare hai imparato, a parlare, a cantare, a mangiare da sola, ad allacciarti i bottoni e le scarpe, a lavarti i denti e le orecchie, ad aprire e chiudere le porte, a usare il telefono, il giradischi e la televisione, a salire e scendere le scale, a lanciare la palla contro il muro e riprenderla, a distinguere uno zio da un cugino, un cane da un gatto, un frigorifero da un portacenere, un fucile da un cacciavite, il parmigiano dal gorgonzola, la verità dalle bugie, l’acqua dal fuoco. Senza voti, né belli né brutti. Giusto?»

(Gianni Rodari, «La bambola a transistor», Novelle fatte a macchina)

La visione progressista di Rodari (in un libro di oltre 50 anni fa!) è irresistibile, ma io non sono del tutto convinta. O meglio: sono sicurissima che si impari anche senza voti, ma dobbiamo ammettere, prima di tutto a noi stessi, che i voti sono un importante fattore di motivazione (e anche di demotivazione). Sono un premio e una punizione, ci fanno contenti o depressi. Siamo come il topolino che spinge la levetta giusta e riceva il pezzetto di formaggio, e come quello che spinge quella sbagliata e riceve una scossa elettrica. I voti danno dipendenza e sono richiesti dagli stessi alunni. Come qualunque insegnante può confermare, l’interesse degli studenti per il voto in sé è molto maggiore rispetto all’interesse nei confronti delle eventuali correzioni.

A poco valgono i discorsi moderni: «Il voto non sei tu, è la fotografia della tua performance in una determinata situazione» o peggio ancora i sistemi di autovalutazione. Ricordo con sgomento quando ci facevano correggere la verifica in classe e pensavo: «Voglio solo sapere che voto ho preso, finiamola con questa tortura». Mio figlio, al secondo anno di scuola, mi guarda con occhio bovino quando, dopo avere completato la scheda di compito, il questionario finale gli chiede: «Era un esercizio facile? Difficile? Così così?». Lui, che fino a quel momento aveva fatto il compito da solo, mi chiede: «Mamma, cosa devo rispondere?»

Grazie al cielo, per ora, sembra immune al fascino del voto. Non so se per sua incomprensione o disinteresse, o perché le maestre hanno lavorato bene, focalizzandosi sugli obiettivi di conoscenza, più che sulla valutazione. Questo mi consente, se torna a casa con la verifica di italiano, di concentrarmi su quello che ha effettivamente imparato, se ha scritto “gniomo” o “gnomo”, indipendentemente che abbia preso “discreto”, “avanzato” o 3 stelline.

Voti e meritocrazia

Anche se il ministro è “dell’Istruzione e del Merito” il concetto di meritocrazia mi sembra inapplicabile alla scuola, almeno a quella dell’obbligo. Che meritocrazia ci può essere alle elementari? Diamo una caramellina ai migliori e orecchie d’asino ai peggiori? Si tratta di un percorso di apprendimento che devono fare tutti, il bambino più dotato e quello che lo è meno, i “maturi” e gli “immaturi”, quelli con alle spalle una famiglia presente e quelli allo sbaraglio. È un percorso di inclusione, non di selezione. Tutti dobbiamo imparare a leggere, scrivere e far di conto.

Che un bambino, a fine anno, venga valutato “insufficiente” (o “in via di prima acquisizione”: non cambia niente) è inaccettabile, e non perché bisogna “regalargli la sufficienza”. Una sufficienza “regalata” è come un’insufficienza certificata: il marchio di un fallimento didattico ed educativo. Si capisce meglio se, invece che di voti, parliamo di competenze: un bambino deve imparare a leggere. Se non ci riesce “come tutti gli altri” bisogna mettere in atto tutti gli strumenti possibili (che spesso costano soldi, come pagare un insegnante di sostegno) affinché ce la faccia. Un brutto voto può essere un grido d’allarme, ma qualcuno lo deve raccogliere.

Il metodo migliore

Ma quindi, alla fine, qual è il modo migliore di valutare dei bambini? Sono felicissima di ascrivere la questione al grande ma sempre sottovalutato registro degli «Affari dei nostri figli che non competono a noi genitori». Ci pensassero - com’è giusto che sia - gli insegnanti, i pedagoghi, i didatti. Se proprio è necessario che ci legiferino sopra i ministri, speriamo siano ben consigliati.

Da esterna, posso solo osservare che il problema dei voti e delle valutazioni è sempre legato alla qualità dell’insegnamento. Una scuola, o un insegnante, non sono “seri” in quanto danno tante insufficienze. Allo stesso modo, una scuola o un insegnante, non sono “inclusivi” perché regalano voti o mascherano gravi lacune edulcorandole con valutazioni poco chiare.

Detto questo, giudicate pure mio figlio con numeri, lettere, valutazioni, stelline, giudizi, emoticon o cuoricini, però nel frattempo fate in modo che abbia finalmente un insegnante di inglese di ruolo. Cari ministri dell’Istruzione, di qualsiasi provenienza politica: io lo so che cambiare metodo di valutazione è un modo gratis e di sicuro impatto per fare vedere che ci si sta occupando di scuola, ma preferiremmo un altro tipo di impegno, ad esempio quello necessario per iniziare l’anno scolastico a settembre, e se pensate che già sia così è perché non mettere piede in classe da troppo tempo.

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