C’è una tipologia di contenuto che, una volta postato sui social, genera sempre un dibattito inferocito e prevedibilissimo: quello del ristorante che decide di diventare child-free. L’articolo riporta la storia di un ristoratore che sceglie di non ammettere bambini nel suo locale. La “notizia” può anche essere lo sfogo di un cameriere esasperato che denuncia quanto sia difficile lavorare circondato da marmocchi, oppure quello di una mamma che si è sentita maltrattata perché le hanno detto in malo modo di badare ai suoi figli.
È uno dei tanti casi in cui i commenti ci dicono più del fatto in sé. Da un lato ci sarà chi denuncia la crescita dei locali no kids – che in Italia praticamente non esistono, se escludiamo centri benessere, discoteche e altri posti dove nessuno porterebbe un infante – e ci vede una forma di discriminazione e intolleranza verso i bambini. Di solito a lamentarsi sono genitori indignati che sostengono di potere andare in giro dappertutto e senza limitazioni con la loro – naturalmente educatissima – prole.
Dall’altro lato ci sono i fautori dell’apartheid più estrema – che spesso non hanno figli (ma a volte sì, non si può mai dire) – sostenitori del fatto che i bambini al ristorante danno fastidio perché sono maleducati. La colpa è ovviamente dei genitori.
L’educazione
Questo dell’educazione è un discrimine importantissimo, sui cui occorre fare chiarezza. Come stabilire cosa rende un bambino sufficientemente “educato”? Se si tratta della capacità di stare seduto a tavola un paio d’ore, magari sostenendo una piacevole conversazione con gli altri commensali e senza fare uso di device elettronici, è presto detto: non si tratta di un bambino.
Non so quando si acquisiscano queste competenze sociali, alcuni non le apprendono mai in tutta la vita (vi è mai capitato di uscire a cena con gente che non riesce a mettere via il telefono?), ma direi non prima dei dieci anni, forse anche i 13 o i 15. Da un bambino più piccolo possiamo pretendere che stia seduto una mezz’ora, forse 45 minuti, dopodiché bisognerà pensare ad altro per intrattenerlo.
La questione dell’età
Come molti genitori scoprono con l’esperienza, spesso è più facile uscire a cena con neonati, che con un po’ di fortuna potrebbero anche dormire tutto il tempo nella loro culletta, che con bambini più grandicelli. Quello che manca, in generale, è la consapevolezza di quel che si può richiedere a un bambino a seconda dell’età. Un neonato non è maleducato se piange, un bimbo di un anno non è maleducato se si stufa di stare nel seggiolone. Un bambino di tre anni non è maleducato se l’unico posto dove vuole trovarsi alle nove di sera è il suo letto. Un bambino di cinque anni non è maleducato se, finito il suo piatto, vuole alzarsi a giocare. Un bimbo di otto anni non è maleducato se considera un pranzo di nozze una tortura.
Oltre all’età vanno considerate le caratteristiche personali, tutte legittime: ci sono bambini più calmi, che possono intrattenersi anche un’ora con matite e album da disegno, e bambini più fisici che hanno bisogno di alzarsi; bambini che se non vanno a dormire a una certa ora diventano nervosi e altri che tirano mezzanotte senza problemi; bambini interessati al cibo e altri che mangerebbero solo pasta in bianco. La maleducazione deriva dal fatto di non comprendere i loro limiti e le loro esigenze, dal pretendere performance che non possono garantire, e dal non occuparsene.
Uscire con i bambini
Uscire con i bambini non è come uscire senza bambini. Meglio o peggio è soggettivo, ma che sia diverso è oggettivo. Questo vale anche se i nostri figli sono educati come i principi di Galles. Non a caso, nelle famiglie nobili i bambini non sono ammessi a tavola con il resto della famiglia fino a una certa età, ma mangiano con la governante. È scontato che non sappiano adeguarsi a certi standard, che abbiano bisogno di allenamento, e che per loro (e per gli adulti) sia meglio così.
Visto che nessuno di noi vive a Downtown Abbey (peccato), se si vuole andare fuori a cena tranquilli tocca pagare una babysitter. Una scelta che non sempre si ha voglia di fare, per molti motivi: costo, mancanza di una persona di fiducia, poca voglia di separarsi dal bambino anche nel tempo libero.
Ecco quindi la decisione di portare un bambino al ristorante. Non si tratta di una necessità, come andare a lavorare o a fare la spesa, ma di un piacere che è legittimo concedersi. Ma perché sia un piacere – per noi, per loro, per chi ci circonda – è necessaria un’attenta pianificazione.
Strategie di sopravvivenza
Scegliere dove andare a mangiare con i bambini è radicalmente diverso da scegliere dove andare a mangiare senza bambini. I criteri di selezione sono differenti: la qualità del cibo e la raffinatezza dell’ambiente passano del tutto in secondo piano.
Ecco, nella mia esperienza, in ordine di importanza, le caratteristiche che deve avere un ristorante per essere adatto ai bambini:
1.tempi di attesa ridotti: intrattenere un bambino, magari affamato, per più di dieci minuti o un quarto d’ora è impossibile.
2.non troppo affollato: il caos dilata i tempi in cucina ed esaspera i bambini. Deve esserci spazio adeguato fra i tavoli e anche sul tavolo, per eventuali libretti o disegni.
3.spazio all’esterno o spazio giochi: ci sono ristoranti dotati di grandi strutture di gioco per i bambini, non sono i miei preferiti (rumore infernale, sovraeccitazione, cibo generalmente tremendo) ma in inverno possono essere un’opzione. I miei favoriti sono quelli con giardino, dove i bambini possano andare anche senza supervisione attiva degli adulti.
4.menù bambini e personale allenato: il personale allenato è quello che sa che la cotoletta con patatine del menù bambini deve arrivare insieme o ancora prima dell’antipasto degli adulti. Se poi il menù bambini non fosse composto tutto di cibo spazzatura, ma includesse qualche verdura qua e là, magari nei ravioli o nelle polpette, sarebbe il massimo.
Si vede da questo elenco che fare ristorazione per i bambini, o meglio ancora, per le famiglie, è una questione di “customer care”, per dirla nel linguaggio del marketing. Si tratta di scegliere una fetta di mercato e coltivarla, con lungimiranza imprenditoriale.
Sberle e smartphone
Per tenere “buoni” i bambini ci sono due strade che vengono spesso suggerite ai genitori in difficoltà, tra lo stizzito e la battuta: le sberle – intese come qualsiasi minaccia fisica utile a impaurire il bambino e quindi a contenerlo – e lo smartphone, per spegnerlo definitivamente.
Inutile dire che sono azioni prive di qualsiasi valenza educativa. Come possiamo pensare che un bambino impari a stare a tavola se lo trasformiamo in uno zombie piegato sul suo device elettronico? È, al massimo, una soluzione di emergenza e da limitare il più possibile, ad esempio con un cartone di cinque minuti se la pizza è in drammatico ritardo. Degli scapaccioni non voglio neanche parlare. Mi limiterò a dire che uscire a cena e picchiare, o essere picchiata, o vedere picchiare qualcuno mi farebbe venire l’indigestione.
Le attività preventive che possono fare i genitori sono altre: documentarsi sul tipo di locale, comunicare esattamente il numero di bambini e la loro età (così il ristoratore può pensare a predisporre gli spazi, mettere i seggioloni, scegliere il tavolo più adatto), prenotare in orario consono, portarsi qualcosa per l’intrattenimento tranquillo dei bambini, di solito libretti e colori, ricordare al bambino le buone regole: si sta seduti, non si scappa, si chiede il permesso per alzarsi, ci si allena a usare bene le posate, non si urla.
Sopportare l’insofferenza
Il bambino potrebbe comunque essere molesto. In questo caso le difficoltà più grandi sono dei genitori, se non sono delle complete amebe. Saranno mamma e papà che faranno i turni per mangiare col bimbo in braccio, che lo porteranno fuori per calmarsi, che lo placcheranno fra i tavoli, che trangugeranno il risotto in tempo da record e salteranno il caffè, per poi tornare a casa di corsa, sentendosi dei falliti.
Capita. La prossima volta andrà meglio: il bambino sarà più grande e di miglior umore, noi ci saremo organizzati meglio, il ristorante non ci farà aspettare 40 minuti per una pizza. Anche fallire fa parte del processo educativo: i nostri figli non impareranno a stare in pubblico da un momento all’altro, se non sono mai usciti di casa.
Purtroppo la pretesa di molti adulti è proprio questa, che i bambini siano relegati nei loro spazi di competenza: la scuola, i giardinetti, la cameretta. Qualsiasi uscita nel più vasto mondo – che sia al ristorante, sui mezzi pubblici, al supermercato – è vista con insofferenza e intolleranza: non è posto per loro, cosa li portate a fare? È un po’ lo stesso atteggiamento di alcuni automobilisti che, per strada, preferirebbero non ci fossero né ciclisti né pedoni, perché disturbano la guida.
Eppure gli spazi pubblici, ristoranti compresi, sono anche dei bambini, che sono cittadini tanto quanto noi adulti. Il problema dei bimbi “di oggi” non è che sono peggio dei bambini “di ieri”: è che sono meno visibili. Un po’ perché sono sempre di meno, un po’ perché sono percepiti come una questione privata, di competenza esclusiva delle loro famiglie. Ma questo è un problema che va ben al di là del: «dove usciamo stasera a cena?».