Ci sono domande banalissime che qualsiasi donna abbia appena avuto un figlio si è sentita rivolgere. Quello che possiamo o non possiamo chiedere dipende dal grado di confidenza e dalle nostre intenzioni (curiosità, malevolenza, genuino interesse?). Alcune domande apparentemente neutre sono in realtà perfide, altre – senza volerlo – potrebbero fare rimanere male la nostra interlocutrice. Ecco un campionario delle più diffuse.
«Lo allatti tu?»
È una domanda PRIVATA, che praticamente tutti si sentono in diritto di fare. Si tratta di un argomento sensibile: non perché ci sia qualcosa di scandaloso nell’allattare o meno, ma perché è un tema intimo e che facilmente tocca nervi scoperti.
Ad esempio: una neomamma potrebbe avere desiderato molto allattare e non riuscirci, oppure stare vivendo un momento di difficoltà, o ancora avere deciso da subito di non volerlo fare.
Inoltre, è difficile che una domanda apparentemente così neutra non abbia, in realtà, un tono giudicante:
- «Sei capace di allattare?»;
- «Ti stai sforzando ABBASTANZA?»;
- «È una cosa naturale, dovrebbe riuscirti»;
- «Lo sai che al bambino fa bene?».
Tanto perché si sappia: tutte le madri sanno che l’allattamento al seno è preferibile. Lo dicono ai corsi preparto, le ostetriche, i pediatri, i cartelli negli ospedali, tutti. Non c’è bisogno di sottolinearlo. Tanto che qui ho provato a raccontare come una pressione eccessiva sull’allattamento al seno finisca per essere controproducente.
«Allatti ancora?»
Idem come sopra: è una domanda privata. Fa abbastanza ridere se la domanda viene posta di fronte a un neonato di 2 mesi, ma anche se ne avesse 20 (mesi, non anni) NON SONO AFFARI NOSTRI.
Inoltre, anche in questo caso, è facile scorgere un retropensiero negativo:
- «Allatti ancora? Per tutto questo tempo? Non dovresti averlo già svezzato?»;
- «Gli farà bene? Lo stai viziando? C’è qualcosa di sbagliato o patologico»;
- «Ma che voglia hai? Hai tanto tempo da perdere. Chissà come si è ridotto il tuo seno».
Ognuno allatta quanto può, vuole o riesce.
«È bravo?»
Tra le frasi fatte, la trovo una delle più perdonabili perché, nel migliore dei casi, è un modo per chiedere «Come vanno le cose?». Ma, se ci pensate, che senso ha dire “bravo” di un neonato? È bravo se dorme? Se mangia? Se fa cacca e pipì regolarmente? Se non piange troppo? E se invece avesse qualche difficoltà, diventa “cattivo”? Perché giudicare già con delle etichette le performance di un bebè di pochi mesi?
«Dov’è il bambino?»
Sembra una domanda innocua, a volte lo sarà anche, ma perché dare per scontato che se incontriamo una neomamma fuori di casa debba avere per forza il pargolo appresso? La mia tentazione è sempre stata quella di rispondere facendo un po’ di teatro: «Il bambino? Il bambinoooo? Oddio l’ho dimenticato».
Se la madre di un bimbo di pochi mesi è in giro da sola è facile che debba farlo per necessità (ad esempio sbrigare una pratica burocratica o andare dal dentista) oppure per staccare un attimo dal neonato. Spesso riuscire a uscire di casa da sola comporta una notevole pianificazione organizzativa, quindi probabilmente l’ultima cosa di cui ha voglia di parlare è di dove stia il figlio.
Inoltre, anche qui è facile individuare il retropensiero giudicante:
- «Dove vai senza tuo figlio?»;
- «Cos’hai di meglio da fare?»;
- «A chi lo hai lasciato?».
«A chi lo hai lasciato?»
Questa è un di cui della domanda precedente. Ma se persino Samantha Cristoforetti ha dovuto rendere conto di come gestisce i suoi figli quando va nello spazio, ricordando che i bambini hanno anche un padre, non stupisce che la questione venga posta pure a noi che rimaniamo sulla Terra. È una domanda indiscreta, che presuppone un diritto a conoscere il nostro ménage familiare e, in generale, gli affari nostri. Oltretutto, suona un po’ accusatoria.
Particolarmente apprezzabile la variante: «È il papà che fa il babysitter oggi?», che non ho nemmeno voglia di spiegare tutti i motivi per i quali è una frase insensata e insultante (per i padri in primis).
«È la cosa più meravigliosa del mondo, vero?»
Il baby blues esiste. Magari state parlando a una madre che si sente giù e la fate sentire in colpa perché non è “abbastanza felice”. Non è vero che tutte ci innamoriamo del bambino appena lo vediamo: io, personalmente, partorito il bambino avrei solo voluto potermi alzare e andarmene.
Ho anche un carattere tale per cui non mi faccio problemi ad ammetterlo pubblicamente, senza farmi venire complessi, ma per qualcun’altra può non essere così. C’è chi ci può rimanere male, sentirsi ingrata, sbagliata, cattiva. Evitiamo di sollecitare pubbliche dimostrazioni di gioia, affetto, tripudio.
«Aspetti già il secondo?»
Questa è la gaffe per eccellenza (perché sono così buona da pensare che sia una gaffe, e non ci sia del dolo): chiedere a una donna che ha partorito da poco, e non ha ancora smaltito la pancia, se aspetta già un altro figlio.
Non fatelo! Già sarebbe buona creanza non chiedere mai a una donna se è incinta, nemmeno se la vedete al nono mese con una pancia enorme e i piedi a papera: aspettate che sia lei a dichiararlo. Ma basterebbe una elementare conoscenza della biologia, se non delle buone maniere, per sapere che una donna con un neonato di due mesi non può avere già la pancia di una seconda gravidanza. C’è bisogno che anche qui espliciti il retropensiero? Perché è abbastanza immediato: «Cicciona!» (scusate il linguaggio da seconda elementare).
«Sei (già) tornata al lavoro?» / «Non sei (ancora) tornata al lavoro?»
Non è un mondo facilissimo per le madri lavoratrici, quindi è possibile che questa domanda tocchi dei nervi scoperti e, in generale, che non metta di ottimo umore la persona cui la stiamo facendo. E se la madre non avesse un lavoro cui tornare? E se fosse costretta a tornare al lavoro dopo pochissimi mesi, perché il suo contratto non prevede la possibilità della maternità facoltativa? E se non vedesse l’ora di tornare al lavoro perché non sopporta di stare a casa con un neonato? E se invece avesse pianificato di tornare al lavoro il più tardi possibile perché vuole “godersi” il figlio?
Anche qui è chiarissimo il pensiero dietro certe frasi. Nel primo caso:
- «Così piccolo, già deve stare senza la mamma?»;
- «Cosa lo fai a fare il figlio se poi non ci stai?».
Nel secondo caso (più raro):
- «Bello stare a casa a farsi mantenere»;
- «Si vede che al tuo lavoro non ci tieni poi così tanto».
Cosa chiedere, invece
«E ma allora non si può più dire niente» (che è l’obiezione più sentita quando qualcuno fa notare che certi commenti possono essere indelicati, scorretti). In realtà si può sempre dire tutto, ma se si vuole essere gentili e provare ad avere una conversazione più produttiva sono altre le cose da chiedere. Per cominciare: «Come stai?», inteso come autentico interessamento. Il discorso implicito è: «So che probabilmente è stata dura, se vuoi raccontarmi qualcosa, sfogarti, chiedermi una mano lo puoi fare».
Per continuare: «Hai bisogno di una mano? Vuoi che passo a trovarti?». È facile che una neomamma si senta sola, magari è incasinata e non riesce a organizzarsi con le visite (non offendersi se non risponde subito). Personalmente, il mio consiglio è di non avere paura di “disturbare”: basta chiedere, ma è facile che vedere qualcuno le faccia piacere. E ancora: «Posso toccarlo/prenderlo in braccio?», da chiedere PRIMA di toccare o prendere in braccio il bambino.
Per concludere: non esistono argomenti tabù. È possibile che una madre abbia voglia di sfogarsi e finisca a parlare con voi di ragadi, diastasi addominali, mariti, babysitter, congedi di maternità, assegni familiari e magari anche che vi racconti i dettagli più cruenti del parto (sicuri di volerlo fare?). Ma la scelta sarà stata sua.