È un po’ come il gioco della felicità di Pollyanna: cosa possiamo trovare di buono nell’esperienza del Covid? Ora che le regole scolastiche per la quarantena sono state mitigate, con un sospiro di sollievo da parte di tutti, mettiamo da parte i cahiers de doléances per capire come la pandemia ha cambiato le abitudini in classe e se – oltre ai distanziamenti, le attività mancate, i rapporti compromessi, le ore saltate – c’è qualcosa che dovremmo salvare.
La Dad, la Did e l’educazione digitale
Parlando di scuola ai tempi del Covid, la prima parola che viene in mente a tutti è la Dad. Faticosa e odiata, è stata lo stesso un appiglio nei mesi più duri della pandemia. Sia chiaro che di Dad spero di non sentire parlare mai più. Sono una strenua sostenitrice della scuola in presenza, convinta che la Dad non sia “scuola”, ma sia stata comunque un’alternativa al nulla. E così anche la Did, che – con tutte le sue contraddizioni, variabili, difficoltà – ha consentito a chi poteva tornare a scuola di farlo e a chi non poteva di seguire (anche solo qualcosa) da casa.
Ma non voglio discorrerne dal punto di vista didattico (non ne avrei le competenze) quanto da quello sociale: Did e Dad hanno fatto da acceleratore per la digitalizzazione a scuola. Una rivoluzione che ha investito tutti, anche con molti aspetti negativi, ma che dimostra come, durante le emergenze, i cambiamenti, anche radicali, siano possibili. Sono competenze collettive ormai acquisite, che potranno sempre tornare utili, in caso di emergenze (sanitarie o meno), di studenti costretti ad assentarsi per periodi prolungati, e che comunque offrono possibilità in più.
Ridurre il numero di alunni per classe
Le chiamano tristemente “classi pollaio”, e nei pollai si allevano polli. Quale genitore vorrebbe un trattamento simile per il proprio figlio? E, come società, possiamo permetterci di riservare questo trattamento a bambini e ragazzi?
Per legge, gli alunni per classe possono arrivare a 27 (alla primaria), 28 (alla secondaria di primo grado) e 30 (alle superiori). Abbassare anche solo di 5 alunni il limite massimo renderebbe le classi più vivibili e la didattica migliore. Il Covid potrebbe essere la leva giusta per decidere di intervenire?
L’affollamento nei luoghi chiusi è terreno fertile per il virus, ma non solo. Classi troppo numerose non permettono di stabilire al meglio la relazione educativa, alla base del processo di apprendimento. Seguire tanti alunni non mette in condizione l’insegnante di prestare a tutti la dovuta attenzione. Questo penalizza soprattutto i più timidi e introversi e chi ha difficoltà di inserimento.
Ridurre il numero di alunni per classe è forse l’obiettivo più difficile da realizzare perché è quello che richiederebbe più soldi (per assumere nuovi docenti, per avere nuove classi) ma anche quello che avrebbe il maggiore impatto sulla qualità della vita scolastica.
La scuola all’aperto
Di scuola all’aperto si è sempre parlato, ma sembrava una cosa da fricchettoni, non applicabile alla quotidianità della scuola pubblica. Invece il Covid ci ha ricordato come sia meglio stare fuori, piuttosto che al chiuso.
Un discorso valido per tutti gli ordini scolastici, ma in particolare per i più piccoli. Non sarebbe nemmeno un’assoluta novità: in Italia, a inizio Novecento, per contrastare malattie come la tubercolosi, nacquero scuole che facevano per lo più didattica in cortile, nei parchi o in campagna.
Eppure le resistenze sono tante: ricordo quando la bidella, alle elementari, non voleva che andassimo in giardino perché poi sporcavamo il pavimento della classe. Ancora oggi, per tanti insegnanti uscire è un’opzione remota, per non parlare dei genitori che “poi però prendono freddo”. Ma il Covid dovrebbe fare da sprone in questo. Non possiamo passare la giornata da una scatola all’altra: la casa, la macchina, la scuola, magari il centro commerciale o la palestra e poi ancora la casa. Vivere e apprendere di più all’aperto, un obiettivo da fissare.
Il calendario scolastico non è scolpito nella pietra
In questi ultimi due anni abbiamo toccato con mano come i contagi aumentino nella stagione invernale, costringendo la scuola a interrompersi, le classi ad andare in quarantena, gli studenti a restare a casa. In primavera la situazione migliora e diventa stabile in estate. Perché, allora, non prevedere direttamente una pausa invernale più lunga e una pausa estiva (che per i ragazzi è di tre mesi) più breve?
Sarebbe così impensabile fare scuola fino al 30 giugno e ricominciare il primo settembre? A chi obietta che le scuole sono troppo calde potremmo dire che non tutti hanno l’aria condizionata nemmeno a casa. Senza contare che anche andare a scuola in inverno, con zero gradi e le finestre aperte, non è il massimo.
Inutile dire che, al di là del Covid, questo allevierebbe le difficoltà di molte famiglie, che ogni lunghissima estate devono porsi il problema di “dove piazzare i figli”. Non perché considerino la scuola un parcheggio, ma perché oggettivamente tre mesi di pausa estiva sono un retaggio del passato, incompatibile con la vita di questo secolo.
Inoltre, suddividere meglio i periodi di riposo sarebbe funzionale dal punto di vista didattico, permettendo di apprendere senza lunghe maratone seguite dal nulla siderale. Sarebbe bello anche solo potere cominciare a parlarne.
Iniziare l’anno in orario
Questa sarebbe la rivoluzione più giusta, direi quasi ovvia, da portare avanti. Con tutto il tempo perso fra fermi della scuola e le quarantene possiamo ancora permetterci di buttare via le prime settimane di scuola?
È quello che succede ogni anno scolastico da quando ne ho memoria: classi scoperte, supplenti ancora da nominare, orario ridotto. Una situazione che non si risolve mai prima di ottobre. Sarebbe fantascienza pensare di nominare gli insegnanti prima dell’estate, cioè alla fine del precedente anno scolastico? Cosa lo impedisce?
Cominciare la scuola in orario sarebbe doveroso nei confronti di tutti. Servirebbe ai ragazzi, prima di tutto, che dopo tre mesi di stop (e due anni di scuola a singhiozzo) sono messi in condizione di non potere ricominciare davvero. Ai genitori, che fino a ottobre inoltrato non possono organizzarsi con gli impegni di lavoro. Agli insegnanti, specie i precari, che non possono pianificare la loro vita prima dell’ultima chiamata.
Forse, si potrebbe ripartire da questo semplice obiettivo, sempre disatteso, per dare un segnale di cambiamento.