Work-life separation, per la Gen Z gli straordinari non sono produttivi

CAPITALE UMANO. Nuova ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano sugli under 27. La direttrice Martina Mauri: «Evitare che il lavoro sia totalizzante è per i giovani una fonte di autorealizzazione».

«Bisogna dare dei confini al lavoro, cioè dei limiti nel dire ok, in quel momento torno a casa, basta, non ci sono più. Quindi non deve esserci sia da parte tua di dare troppa disponibilità, sia da parte loro di chiederti quando non è il momento»: questa si chiama work-life separation ed è l’opinione di un qualsiasi giovane sotto i 27 anni della Generazione Z. Per tutti c’è il desiderio di tracciare confini chiari tra lavoro e tempo personale. Non si tratta di pigrizia o disimpegno, ma di una ricerca consapevole di equilibrio per garantire produttività, benessere e realizzazione personale. Questo desiderio si riflette anche nella richiesta di ambienti di lavoro sani: contesti inclusivi, privi di stress eccessivo e competitività esasperata, dove le relazioni siano positive e rispettose. Ma il benessere non è l’unica priorità. La Generazione Z dimostra una forte propensione alla formazione continua e al dinamismo professionale.

Tutti atteggiamenti studiati da Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano in una ricerca qualitativa, presentata nei giorni scorsi, sui valori della Generazione Z.

Quali sono stati gli obiettivi e i metodi principali della vostra ricerca sulla Generazione Z?

«Abbiamo voluto esplorare come i giovani percepiscano il lavoro e quali siano le loro aspettative nei confronti delle aziende. È stata una ricerca qualitativa: abbiamo intervistato studenti universitari provenienti dal Politecnico di Milano, dalla Bicocca e dalla Statale, e organizzato focus group con studenti di quarta e quinta superiore. Questo approccio ci ha permesso di entrare nel merito dei loro valori, delle motivazioni e delle priorità che si discostano molto da quelle delle generazioni precedenti».

Quali sono i principali fattori che motivano i giovani under 27 rispetto al lavoro?

«Le nuove generazioni sono spinte da valori intrinseci e individuali. Non sono attratte da benefit economici, carriere lineari o posizioni prestigiose. Ciò che conta davvero per loro è trovare un significato in quello che fanno. Vogliono che il lavoro rifletta i loro valori personali e abbia un impatto positivo sulla società o sull’ambiente. Inoltre, per loro è fondamentale mantenere aggiornate le proprie competenze, non solo per crescere professionalmente, ma anche per essere pronti a riqualificarsi, se necessario».

In che modo le aziende possono rispondere a questa esigenza di formazione e dinamismo?

«Le aziende devono strutturare percorsi formativi chiari e offrire opportunità di apprendimento che siano visibili e accessibili. Ad esempio, lavorare per progetti può essere una strategia vincente: consente ai giovani di cimentarsi in diverse attività, evitando la monotonia e sviluppando nuove competenze utili per il futuro. Questo approccio è apprezzato perché permette loro di prepararsi a ruoli che potrebbero cambiare rapidamente a causa dell’evoluzione tecnologica. Inoltre, è importante che le aziende comunichino chiaramente la propria missione e i propri valori, mostrando coerenza tra ciò che affermano e ciò che fanno».

Una delle evidenze emerse dalla vostra ricerca è il bilanciamento tra vita lavorativa e privata. O forse sarebbe meglio parlare di netta separazione?

«Vogliono confini chiari, ciò che chiamiamo “work-life separation”. Questo non significa che non siano disposti a impegnarsi, ma vogliono evitare situazioni in cui il lavoro diventa totalizzante. L’equilibrio tra vita personale e professionale è visto non solo come un bisogno pratico, ma anche come una fonte di autorealizzazione. Molti giovani desiderano utilizzare il tempo libero per coltivare passioni e interessi. Questa esigenza richiede un cambiamento culturale da parte delle aziende, soprattutto a livello manageriale. I manager devono imparare a valutare i lavoratori sui risultati raggiunti, piuttosto che sul tempo speso in ufficio o sulla disponibilità a fare straordinari. Questo cambio di mentalità potrebbe aumentare significativamente l’engagement dei giovani, che attualmente sono tra i più difficili da trattenere».

Molti ambienti di lavoro sono diventati tossici e i ragazzi lo respirano dai mugugni continui dei loro genitori. La Generazione Z vuole un posto «sano». Cosa significa?

«Un ambiente sano è caratterizzato da serenità, inclusività e relazioni positive. I giovani vogliono sentirsi liberi di essere se stessi, con le loro fragilità, senza essere giudicati. Non vogliono un ambiente tossico, dominato da stress e competitività esasperata. Questa esigenza deriva anche dall’osservazione delle generazioni precedenti, spesso percepite come infelici e stressate dal lavoro».

Non sono forse un po’ svogliati e chiedono tranquillità per vivacchiare?

«No, la serenità che intendono loro non va intesa come sinonimo di pigrizia, ma di un approccio che consente di essere più produttivi e motivati. Cercano un contesto in cui i carichi di lavoro siano adeguati e dove sia possibile costruire rapporti di collaborazione con colleghi e superiori».

C’è poi il tasto dolente del job hopping. La Gen Z salta da un lavoro all’altro nell’arco di due anni. Questo desiderio di cambiamento continuo non rischia di scontrarsi con le necessità delle aziende?

«In realtà, questa voglia di dinamismo si sposa bene con le esigenze di aggiornamento continuo delle aziende. La tecnologia sta accelerando il tasso di obsolescenza delle competenze e molte organizzazioni hanno già iniziato a offrire percorsi di upskilling e reskilling. Coinvolgere i giovani in progetti trasversali o di reverse mentoring, ad esempio sulla tecnologia, può essere una soluzione. Non solo soddisfa la loro esigenza di crescita e varietà, ma permette anche alle aziende di sfruttare competenze che i giovani sviluppano autonomamente. Questo approccio richiede però un cambiamento organizzativo profondo, che molte aziende devono ancora affrontare».

Un altro tema riguarda la percezione del futuro, anzi del non futuro, da parte della Generazione Z. Come influenza le loro scelte lavorative?

«Quello che abbiamo osservato è una diffusa sfiducia nel futuro. I giovani non vedono più il lavoro come uno strumento per costruire una vita agiata o un futuro stabile. Questo è legato a un contesto storico particolarmente complesso: crisi climatiche, pandemie e instabilità geopolitiche hanno lasciato un segno profondo. Molti ragazzi non credono che valga la pena fare sacrifici oggi per un futuro che percepiscono come incerto, se non addirittura inesistente. Questa visione li porta a concentrarsi sul presente, a dare priorità al significato e alla soddisfazione immediata piuttosto che a stipendi alti o carriere a lungo termine. È un atteggiamento che, se da un lato può sembrare preoccupante, dall’altro riflette una profonda consapevolezza della loro realtà».

Come possono le aziende adeguarsi a questa visione del futuro?

«Le aziende devono cambiare prospettiva. Più che offrire incentivi tradizionali, è necessario costruire un percorso lavorativo che metta al centro il significato del lavoro e il benessere personale. I giovani vogliono sentire che il loro contributo fa la differenza, sia all’interno dell’azienda che nella società. Questo approccio non solo risponde ai loro bisogni, ma permette alle aziende di attrarre e trattenere talenti in un contesto competitivo».

Guardando al 2025 e anche oltre, pensa che questi cambiamenti rappresentino un fenomeno temporaneo o una svolta definitiva?

«Non credo si tratti di un cambiamento netto, ma di un’evoluzione culturale. La Generazione Z amplifica tendenze che si osservano anche in altre generazioni, come il desiderio di benessere e di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro. La pandemia, in particolare, ha accelerato questa transizione, spingendo molti a riconsiderare le proprie priorità. Penso che il futuro del lavoro sarà sempre più incentrato sulle persone, sull’inclusività e sull’impatto sociale. Le aziende che sapranno adattarsi a questi cambiamenti non solo saranno più attrattive, ma anche più resilienti di fronte alle sfide del mercato».

Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index.

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