«La cucina è passione. E i giovani
non vanno domati, ma coinvolti»

CAPITALE UMANO. Chicco Cerea, famoso chef del ristorante «Da Vittorio»,
rivela il rapporto della famiglia con la Gen Z: una formazione da «3 Stelle»

Il settore della ristorazione in Italia ha registrato lo scorso anno un recupero significativo dell’occupazione. Si contano infatti circa 1,5 milioni di occupati complessivi nel settore, con una crescita del +5% rispetto al 2023. Di questi, oltre 1,1 milioni sono lavoratori dipendenti, in aumento del +6,7% (pari a +70 mila unità rispetto all’anno precedente). Il numero di addetti ha quindi superato i livelli pre-pandemici: già a fine 2023 l’occupazione era tornata ai valori del 2019 (circa 987 mila occupati). Nonostante la crescita, il settore sconta una forte carenza di personale qualificato: mancano circa 151.550 addetti nella ristorazione italiana. Questa carenza di personale riguarda in particolare le figure di sala e cucina. Circa il 40% degli imprenditori del settore lamenta problemi di mismatch tra domanda e offerta di lavoro. E la Lombardia ne risente particolarmente perché è la regione con il maggior numero di imprese della ristorazione: oltre 48mila attività. Ça va sans dire che la carenza è particolarmente sentita nella fascia giovanile, particolarmente allergica ai ritmi e ai tempi di questo settore che mette in discussione l’equilibrio di work-life balance. Eppure le eccellenze non mancano, soprattutto nel 3 Stelle Michelin «Da Vittorio». Come Osservatorio Delta Index ci siamo confrontati con lo chef bergamasco Chicco Cerea, che con tutta la sua famiglia porta il meglio della cucina italiana in tutto il mondo.

Chef Chicco, avete difficoltà ad attrarre giovani nella ristorazione?

«Non si entra da noi come capopartita. Prima bisogna capire bene la partita»

«Dopo il Covid tutti abbiamo avuto difficoltà, poi si è ripartiti. Come facciamo ad attrarli? La motivazione, non solo economica (che è importante, vista anche la tanta dedizione che si mette in questo lavoro), di crescita personale. Bisogna far capire che se inizi come commis, come cuoco, puoi comunque andare oltre: puoi conquistare il mondo, puoi imparare le lingue, puoi veramente viaggiare e andare ovunque grazie a questo mestiere».

Si sente spesso dire che i giovani non hanno voglia di lavorare. Lei che visione ha?

«Io trovo che i giovani d’oggi siano bravi. Magari la generazione di papà Vittorio e mamma Bruna aveva più fame. Però devo dirti che, anche senza questa fame, i giovani d’oggi secondo me sono molto più preparati. Per noi sono energia pura! Alcuni li trascino io, altri trascinano me nella curiosità di capire quello che loro sanno e che io magari mi sono perso».

La ristorazione ha tempi molto particolari: si lavora nei weekend, la sera, con orari lunghi. Quindi mette un po’ in crisi quel modello dei giovani d’oggi di equilibrio tra lavoro e vita privata...

«Certo è difficile, quando i tuoi amici sono in giro, fare la mise en place per la sera. Cioè, capisci che chi lo fa è convinto di questa cosa. Chi molla, capisci che dopo un po’ non ha la dedizione giusta per questa professione».

C’è stata una fase in cui le televisioni e i social spingevano tantissimo sulla professione dello chef. Come ha vissuto questo boom che peraltro sta continuando?

«Ormai il colloquio non è più “Ti farò sapere”. Adesso è il ragazzo che decide. E comunque i giovani che accedono al lavoro devono appassionarsi a una maglia. Siamo noi a dargliela»

«Queste trasmissioni – pur dando più fama a noi professionisti e alla ristorazione – hanno fatto un po’ di danni. Nel senso che hanno fatto sì che i ragazzi non capissero bene quali sono davvero i valori che servono per entrare nella ristorazione. Quindi tutti si buttavano alla scuola alberghiera. Quando poi questi ragazzi uscivano, dopo i tre o cinque anni, duravano sei mesi o un anno e cambiavano lavoro... voleva dire che avevano buttato via cinque o sei anni della loro vita, e questo non era un bene».

Le è mai capitato un talento che ha rinunciato per il troppo sacrificio?

«Mi è capitato di puntare su alcuni ragazzi che dopo un po’ non ce l’hanno fatta. Però forse è meglio così, per noi e per loro. Anche perché, soprattutto dopo il Covid, ci siamo resi conto dell’importanza del tempo. E non è male, perché non è che uno è bravo solo se ha la dedizione a lavorare 24 ore al giorno, o 15 ore, o 12. Lavori il giusto, lavori bene, lo fai con testa e ti prendi i tuoi spazi. Penso che sia una giusta riflessione».

Lasciate dei giorni di riposo? Com’è l’organizzazione per questi giovani?

«Diciamo che da quando ho iniziato io le cose sono cambiate tanto, in meglio. Io sono partito che facevamo zero giorni di riposo alla settimana: quando capitava, facevi qualcosa. Poi siamo passati a un giorno alla settimana; ora siamo a due. Sono cose che forse spaventano inizialmente l’imprenditore – sì, forse cambiano i parametri – ma una volta che tu li calcoli e ti adegui, penso che ottimizzi e rendi l’ambiente per loro più sereno, e anche più produttivo, più lucido».

«Le trasmissioni tv sulla cucina hanno fatto un po’ di danni. Un esempio: chiedo a un ragazzo “Mi peli un chilo di carote?”. E lui urla: “Sì chef, sì chef” , ma un secondo dopo gli devo dire: “Non le patate: le carote!»

Altre iniziative per coinvolgere i ragazzi?

«Abbiamo inserito l’Accademia dove ci sono ragazzi che non sono italiani, possono imparare l’italiano; chi vuole imparare francese o inglese, può farlo; c’è chi impara marketing, chi impara accoglienza... Facciamo anche interventi con degli psicologi per analizzare alcune situazioni. E ci sono corsi più tecnici sui formaggi, sui vini... tutte cose che interessano e spronano i ragazzi. L’importante è farli sentire parte di un gruppo: che indossino una maglia e si appassionino a quella maglia».

Al colloquio di lavoro la prima cosa che chiedono i ragazzi non è quanto saranno pagati. Ha mai ricevuto richieste strane?

«C’è stato chi mi chiedeva: “Ma devo lavorare la sera, fino a che ora? Sono a casa il sabato e la domenica?”. Capivo che non era l’approccio giusto. Se la prima cosa che chiedi sono queste domande, probabilmente non fa per te».

Quali sarebbero le domande giuste?

«Dove pensa di mettermi in cucina? Quanto rimango in questa sezione, in questo rango di cucina? Posso poi girare nei vari reparti? Posso crescere? Che aspettative potete darmi? Più avanti mi sposterete all’estero? Posso andare a fare esperienza da qualche altra parte? Ecco, queste sono le domande che ci interessano. Quindi dipende da cosa ti chiedono».

Sono un po’ cambiati i tempi dei colloqui in cui l’imprenditore ti lasciava in sospeso...

«In effetti una volta facevi il colloquio e dicevi al ragazzo “Ok, ti farò sapere”, perché magari avevi 3-4 candidati. Adesso è il ragazzo che ci dice ”Le farò sapere io”. E questo cambia molto la situazione mentale. È un segno del cambio di paradigma, ma a ragione, perché il ragazzo giustamente analizza e dice: “Ok, io andrò in questa azienda: che sbocchi ho? Come posso crescere? Cosa posso diventare?”. Ed è una cosa intelligente».

Voi avete una collaborazione con un istituto tecnico alberghiero, il «Galli». Quali vantaggi ottenete ad avere un rapporto diretto con una scuola?

«Uno stage non può essere una scopa in mano ai ragazzi. È l’inizio di una carriera»

«A parte il piacere della dedica a papà Vittorio, siamo vicini a questa scuola, facciamo degli interventi abbastanza importanti. Però allo stesso tempo ci siamo resi conto che il mondo della scuola in generale è un mondo complicato. È difficile intervenire, è difficile gestirlo come forse vorremmo noi, come si fa in azienda, per farlo andare in un certo modo. E per quanto riguarda i ragazzi, sì, ne prendiamo alcuni ma non tanti: preferiamo che vadano in altre situazioni, in altre strutture, in altre aziende, proprio per dimostrare che non monopolizziamo niente. Anzi, preferiamo che prima girino, vadano in tutti i locali, in tutto il mondo a fare esperienza, e poi se vorranno torneranno da noi».

È un po’ disilluso dal mondo formativo del settore?

«Si potrebbe fare tanto, prendendo esempio dalle scuole magari in Francia, in Svizzera, in Germania, dove secondo me si trasmette molto di più. I ragazzi che escono dall’alberghiero talvolta... - non tutte le scuole, qui sto generalizzando - non sono stimolati nel modo giusto. A un ragazzo magari di terza, o anche di quinta, non fari fare uno stage – con il rispetto che ho per tutti gli ambienti di lavoro – in una mensa ospedaliera o aziendale le prime volte. Quella magari sarà una scelta successiva, ma prima deve sorprendersi, deve innamorarsi del mestiere con esperienze forti».

Lei punterebbe più su un tema di soft skill che di competenze tecniche?

«Ai ragazzi consiglio: sbagliate, sbagliate, sbagliate. Più sbagliate prima e meno sbaglierete dopo. Io sono convinto che questa nuova generazione è sana, bella e preparata. Il mondo va in meglio»

«Quando tu eri ragazzino e ti innamoravi, non è che sapessi baciare... mi ricordo che il mio primo bacio è stato imbarazzante! Poi le cose le impari, ma deve partirti da dentro, prima: è un amore, una passione, deve davvero essere stimolata – è questo che conta. E quindi dovremmo intervenire con cuochi, chef o ristoratori di un certo tipo per cercare di cambiare qualcosa. Va ammodernata anche la scuola alberghiera in Italia».

Su cosa corregge immediatamente i ragazzi freschi di studi?

«Ti verrà da ridere: la prima cosa su cui li correggo è quando chiedi: ”Scusa, per favore, mi peli un chilo di carote?” e lui ti risponde: ”Sì chef, sì chef” , ma un secondo dopo gli devo dire: “No, non le patate: le carote!”. Non sono concentrati, non sono attenti. Guardano il superfluo. E quindi – sempre per via di questo discorso della televisione – ripetono delle cose che vedono, ma non sono concretamente presenti in cucina».

Più che ridere, verrebbe da piangere. Quale è l’atteggiamento giusto?

«Partire sempre in modo molto umile, stare tranquilli. Farsi rispettare, però essere disposti all’apprendimento. Essere pronti ad assorbire il mestiere nella frenesia della cucina: mentre peli le carote, guarda l’altro che cucina il pesce. È lì che impari!».

E come fa a capire quando un ragazzo ha una mano «diversa»”? Perché il cuoco è manualità, sentimento, ma anche palato... Ci sarà un piatto su cui fa la prova?

«Noi (la famiglia Cerea) mangiamo qui al ristorante tutte le sere, verso le 7, molto velocemente prima del servizio. E mi piace, a turno, mettere i ragazzi alla prova: “Stasera mi prepari un po’ di pesce”. “Ah, sì chef, come faccio?”. “No, fai tu, fai quello che vuoi”. Ormai con l’esperienza che ho riesco a capire se da quel cuoco trarrò qualcosa oppure no. Se ha la giusta mano, il giusto sentimento; se lo sala bene, se lo cuoce al punto giusto; che tipo di pesce ha scelto, come lo taglia, cosa mi prepara come contorno... Cioè, un piatto normalmente basta per capire come una persona cucinerà».

La vostra azienda come gestisce l’ingresso dei giovani?

«Vengono selezionati dal nostro HR, c’è un secondo colloquio con me e mio fratello Bobo, poi vengono presentati agli altri chef, che sono mio cognato Paolo Rota e Gibo Bergamelli. Al nuovo assunto si mostra il “mondo Da Vittorio”: viene accompagnato nelle varie situazioni, nelle cucine, in sala; gli vengono presentati tutti; e lui stesso si presenta durante il briefing che facciamo tutti i giorni alle 11.30, raccontando il percorso che ha fatto,la scuola da cui proviene, o dove lavorava prima. Gli viene poi assegnato un rango in cucina: normalmente in affiancamento; si inizia da una partita magari un pochino più tranquilla, per poi nei mesi successivi passare a qualcosa di più impegnativo, a seconda però delle capacità che dimostrerà. Inizia così, creandogli tutto attorno un percorso di crescita. C’è gente che ha iniziato con noi facendo solo dei servizi esterni. Ci siamo conosciuti, gli è piaciuto l’ambiente, ha chiesto di entrare a far parte del gruppo e l’abbiamo preso come stagista. Dopo pochi mesi di stage l’abbiamo inserito e da lì, non ti nascondo, più di uno poi è cresciuto talmente tanto che è diventato responsabile, chef di cucina, in altre nostre location. Ne ho tanti di questi esempi».

Due terzi del vostro personale è under 30, forse anche di più. Ma in questo dare-avere, vi è mai capitato un giovane che è arrivato e ha pensato: “Sono a Da Vittorio, mi sento forte”, e ha cercato subito di inserire un suo piatto, una sua ricetta?

«Siamo noi che stimoliamo questo scambio! Siamo noi che, durante i nostri briefing, diciamo: “Ragazzi, se avete delle idee, esprimetevi. Fateci vedere quello che avete in testa!”. Poi naturalmente le affiniamo insieme; però è importante che ognuno porti il proprio sapere, la propria idea».

Ma non ci sono casi di chi si presenta con supponenza?

«Capita e allora gli dico: “Guarda che tu cucini per gli altri, non cucini per te stesso. Non sei tu a dire che questo è un capolavoro”. L’auto-celebrazione non va bene, è quello che sta rovinando la cucina italiana. Tanti chef che sono anche bravi, quando cucinano per se stessi e non per gli altri si rovinano. E quindi bisogna bloccare sul nascere questa cosa nei ragazzi, perché il piatto deve piacere soprattutto agli altri, non perché tu pensi che sia un’opera d’arte. Devono dirlo gli altri, non tu».

Nella sua brigata c’è un nome, c’è un giovane che ha fatto tutto questo percorso, dall’apprendistato alla formazione interna, e che adesso può dichiarare che è un giovane di riferimento della sua cucina?

«Ce n’è più di uno! Noi siamo in tanti e abbiamo visto che quando prendiamo un nuovo locale, l’importante è che chi lo gestisce sia passato da Da Vittorio e abbia acquisito quelli che sono i nostri valori familiari e di qualità, sui quali non si transige per niente».

Sì, ma faccia dei nomi...

«Ti faccio quattro nomi che stanno facendo delle cose fantastiche: Davide, Edoardo, Patrick, Manuel, per dirne quattro. Ma ce ne sono tanti altri – mi scuso magari con chi adesso non mi viene in mente – ma veramente sono giovani che ti trasmettono tanto e su cui puoi puntare, ti senti sicuro con loro».

I ragazzi della Generazione Z vogliono essere anche partecipi della mission aziendale, non si sentono solo dei dipendenti. Voi come comunicate su questo aspetto?

«Una volta si beveva un caffè insieme, si partiva e si lavorava...Oggi, invece, dedichiamo una riunione di 3-4 ore (forse la più importante) dove raccontiamo cos’è il mondo Da Vittorio, dove siamo presenti, chi siamo, chi è la signora Bruna, cosa fa Chicco, chi sono Bobo, Francesco, Rossella... cosa facciamo, qual è la nostra mission, perché amiamo lavorare in un determinato modo. Non ti nascondo che durante questi incontri succedono cose bellissime: passano 3-4 ore che nemmeno ce ne accorgiamo, e a un certo punto sono i ragazzi che iniziano a farci domande. Da lì cominciano a sposare la nostra filosofia, a sentirsi parte del gruppo, percepiscono l’appartenenza, e questo è molto bello. Le cose sono cambiate, per me c’è sempre un’evoluzione. Devo dirti che secondo me, al di là di quello che si dice (“ai miei tempi”, “alla mia epoca”, perché la gente ha paura dei cambiamenti), il mondo è sempre andato in meglio. Certo, alcuni valori vanno magari presidiati, però c’è una generazione sana, bella, e noi dobbiamo puntare su quella per il futuro».

Un aspetto non proprio positivo c’è: tanti ragazzi, invece di restare sul nostro territorio, decidono di andare subito all’estero. C’è qualche problema della cucina italiana, secondo lei?

«Allora, da un certo punto di vista... sì. La cucina italiana nel mondo è veramente apprezzata. Abbiamo delle capacità noi italiani che ci invidiano: come accoglienza, come modi di fare, come conoscenza e come cucina. La cucina italiana, ripeto, è amatissima in tutto il mondo e quindi un ragazzo, un giovane, magari vede l’Eldorado e dice: “Ok, invece di iniziare a sgobbare qua, vado là che mi danno già...”. Però attenzione a questa cosa. È un consiglio che do loro: non bruciatevi! Abbiate pazienza, e chi andrà deve portare la conoscenza della cucina italiana. Se tu vai a lavorare subito in Inghilterra, in Francia, in Oriente, la conoscenza che hai alla tua età, seppur magari buona, è ancora limitata; non l’hai affinata. E dopo un po’ ti perdi, perché vieni assorbito da quelle che sono le richieste locali. Alla fine vedo ristoranti italiani che fanno anche sushi. Questa è una cosa abominevole, si può dire. Allora dico ai ragazzi: può darsi che all’estero inizialmente possiate avere di più, guadagnare di più, però almeno due o tre anni fateli in locali in Italia dove potete imparare, affinarvi, strutturarvi, sentirvi più forti – e poi andate alla conquista di quello che volete».

Qualche ragazzo vuole tutto e subito. Le è mai capitato un ragazzo che arriva a Da Vittorio e, invece di mettersi all’inizio del percorso, chiede già di essere uno chef de rang?

« C’è chi chiede subito di essere capopartita. Magari era in un altro ristorante – magari con cucina più semplice, un locale dove si facevano meno coperti– e aveva una certa sicurezza. Arrivato da noi, convinto di poter essere capopartita, lui stesso dopo una settimana ha detto: “Ascoltate, faccio un passo indietro. Capisco che qui è una cosa un pochino più articolata, più complicata; preferisco magari crescere pian pianino”. Oppure abbandona, perché si rende conto che non ha ancora la capacità per affrontare questa realtà».

La ristorazione d’eccellenza è un fiore all’occhiello della cucina italiana, però per i ragazzi è come scalare una montagna: richiede un grande sacrificio. Se dovesse dare dei consigli ai ragazzi che vogliono iniziare questo percorso, cosa suggerirebbe?

«Sbagliate, sbagliate, sbagliate. Quando siete giovani, più sbagliate meglio è. Sbagliare sì, ma con criterio, con conoscenza, sapendo quello che si fa. Ma tentateci, provateci, studiate, siate sempre curiosi. Coraggio, curiosità... E poi capiterà che sbaglierete, ma se sbagliate alla vostra età potete recuperare tutto. Meglio sbagliare quando si è Generazione Z piuttosto che nella mia generazione. Quindi: più sbagliate prima, e meno sbaglierete dopo».

Questo per quanto riguarda i ragazzi. E le aziende cosa non dovrebbero sbagliare?

«Per esempio non bisogna prendere degli stagisti e farli solo spazzare la cucina tutti i giorni e basta. E ho detto tutto».

Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index

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