«Calciobalilla e viaggi? Macché, per attrarre i giovani serve un piano formativo solido»

L’INTERVISTA. Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, racconta come colmare il gap tra aziende e giovani talenti.

Il Report Delta Index è certificato dai ricercatori di Adapt con i quali è stato costruito il percorso di analisi degli scenari del lavoro legati all’attrattività delle aziende verso i giovani. Un quadro generazionale che ha completamente rimodulato le regole d’ingaggio nelle assunzioni. Ne parliamo con Francesco Seghezzi, presidente di Adapt.

Presidente Seghezzi, quali risultati ritiene più interessanti nel Rapporto Delta Index 2024?

«Il rapporto evidenzia un cambiamento significativo: se inizialmente l’attrattività era al centro dell’attenzione, le aziende hanno poi riconosciuto l’importanza della formazione come leva strategica. Questo riflette una realtà nuova: i giovani, consapevoli della loro scarsità sul mercato, ricevono numerose offerte e tendono a muoversi con maggiore libertà tra le opportunità lavorative. La formazione ha un ruolo centrale nel trattenere il giovane. Spesso le imprese prendono quello che trovano, non hanno alternative e quindi assumono giovani non completamente tarati su quello di cui l’azienda ha effettivamente bisogno, quindi rischiano di perderli più facilmente se non li formano».

In che modo l’attrattività delle aziende si lega alla formazione?

«L’attrattività è solo il primo passo. Per mantenere un giovane in azienda, è necessario offrire molto di più: percorsi interni di formazione, opportunità di sviluppo e prospettive chiare. Oggi, un giovane decide di restare non solo per il lavoro che svolge, ma per la visione che l’azienda gli offre. Senza un piano formativo solido, il rischio di perderlo alla prima occasione è altissimo».

Perché i settori del commercio e dei servizi incontrano difficoltà nell’attrarre giovani talenti?

«La dimensione aziendale è cruciale. In questi settori molte imprese sono piccole o medie, spesso con una gestione meno strutturata delle risorse umane e poche risorse per formazione e welfare. Inoltre, il commercio e i servizi richiedono orari flessibili, turni nel weekend e spesso una scarsa conciliazione vita-lavoro, elementi che la generazione Z considera sempre più prioritari. Settori come la logistica, pur richiedendo competenze più basse, riescono ad attrarre giovani grazie a una maggiore prevedibilità degli orari e migliori condizioni organizzative».

Qual è il ruolo della Generazione Z nel ridefinire le dinamiche del lavoro?

«La generazione Z ha cambiato le regole del gioco. I giovani di oggi vogliono distinguere nettamente lavoro e vita privata e cercano un senso in ciò che fanno. Questa nuova sensibilità ha aspetti positivi, come una maggiore consapevolezza dei propri diritti e una visione critica verso il lavoro come fine ultimo. Tuttavia, c’è anche una fragilità diffusa: spesso non sono pienamente consapevoli del loro valore sul mercato, nonostante la scarsità di giovani li renda una risorsa preziosa. Questa consapevolezza parziale può generare incertezza e una certa reticenza ad affrontare nuove sfide».

Le aziende devono adattarsi a queste nuove aspettative?

«Non si tratta di offrire benefit superficiali, come il calciobalilla in ufficio o il pacchetto vacanze. Le aziende devono lavorare su due fronti: da un lato, analizzare i bisogni dei propri dipendenti e costruire modelli organizzativi partecipativi che diano senso e valore al lavoro; dall’altro, offrire percorsi formativi personalizzati e opportunità di crescita reale. La generazione Z cerca autenticità e coinvolgimento, non solo comfort».

Come si può colmare il disallineamento tra domanda e offerta di competenze?

«Il mismatch è una sfida complessa ma non insormontabile. La formazione duale e l’apprendistato sono strumenti essenziali per integrare studio e lavoro, ma sono ancora troppo poco diffusi in Italia. Inoltre, è necessario investire in formazione continua e analisi dei fabbisogni aziendali per offrire percorsi mirati. Le imprese devono essere accompagnate in questo processo, con un supporto sia organizzativo che culturale. Ad esempio, gli ITS rappresentano una risorsa fondamentale per competenze tecniche avanzate, mentre le università dovrebbero utilizzare maggiormente strumenti come l’apprendistato di terzo livello».

Qual è il ruolo dell’intelligenza artificiale nei processi aziendali?

«L’AI ha un potenziale enorme, soprattutto nella selezione e gestione delle risorse umane. Può migliorare i processi di screening iniziale e l’analisi delle performance, ottimizzando tempi e risorse. Tuttavia, resta fondamentale l’interazione umana, soprattutto nelle piccole imprese dove il rapporto diretto e la fiducia sono centrali. L’AI non può sostituire il dialogo e la comprensione reciproca».

Quali sono le principali sfide per il futuro delle aziende italiane?

«L’impatto demografico sarà lo shock più grande. La scarsità di giovani diventerà sempre più evidente e dominerà le dinamiche del lavoro, superando persino l’effetto delle trasformazioni tecnologiche. Le imprese devono anticipare questa realtà, investendo in strategie di formazione e fidelizzazione. Il rischio è che senza una visione lungimirante, si arrivi impreparati a gestire questa transizione».

Come possono le aziende affrontare questa sfida?

«Devono abbandonare la visione a breve termine. Investire nelle persone, nella formazione e nella costruzione di un’identità aziendale forte non è solo una questione di etica, ma una necessità economica. La competizione per i giovani talenti sarà sempre più agguerrita e le imprese che non sapranno adattarsi rischiano di perdere non solo risorse umane, ma anche competitività sul mercato».

Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index

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