Addio al mito del top brand, i giovani cercano leader capaci di ascoltare

L’ANALISI. Con solo il 43% di lavoratori soddisfatti, siamo il fanalino di coda in Europa. Bedusa, presidente di Great Place To Work Italia: «Per la Gen Z, ascolto, welfare e inclusione sono la chiave per il futuro nelle aziende»

Quanto sono contenti gli italiani del proprio posto di lavoro? Poco, molto poco. Solo il 43% è soddisfatto. In Europa il confronto è avvilente, siamo in fondo alla classifica, i peggiori. In cima, sul podio, ci stanno Danimarca (75%), Norvegia (73%) e Svezia (68%). I più vicini territorialmente a noi sono Austria e Svizzera (entrambe al 67%). E non si tratta di giudizi negativi sugli spazi fisici ma dell’impatto diretto della cultura della forza lavoro e della qualità della leadership sulle prestazioni aziendali.

Secondo la ricerca di Great Place To Work, presentata nei giorni scorsi, le principali insoddisfazioni dei collaboratori in tutta Europa riguardano il mancato apprezzamento da parte dei manager (49%), seguito da un dialogo di facciata tra management e dipendenti (48%). Temi retributivi e riconoscimenti occupano il terzo e quarto posto (47% e 45%), mentre l’esclusione dalle decisioni sul lavoro è al quinto (44%). Altri problemi includono favoritismi nelle nomine (43%), assenza di welfare (42%), scarsa attenzione alla diversità e inclusione (38%), meritocrazia limitata (37%) e mancanza di equità nella redistribuzione degli utili (36%).

La situazione in Italia

C’è poi il capitolo Italia. Abbiamo aziende eccellenti, cresciute col genio di famiglia, la bravura e l’estro di una persona che ha creato un’attività dal nulla. Questo, se apparentemente dà lustro al Made in Italy, contemporaneamente non ha fatto crescere un management adeguato. È facile incontrare vertici aziendali attorniati da «yes-man». E infatti stiamo assistendo alla predazione delle nostre aziende da parte dei fondi. Da noi succede spesso che il miglior tecnico diventi il capo dei tecnici, ma questo non vuol dire che abbia anche competenze di ascolto.

Questo aspetto è il più critico quando il focus si sposta sulla Generazione Z che sta ridefinendo il mondo del lavoro con nuove aspettative, richieste di maggiore flessibilità e una spiccata attenzione alla cultura aziendale. Alla luce dei dati negativi registrati a livello europeo, le imprese italiane sono pronte ad accogliere questa nuova generazione? Ne abbiamo parlato con Beniamino Bedusa, presidente di Great Place to Work Italia.

La ricerca di Great Place to Work evidenzia un cambiamento radicale nel rapporto tra giovani e aziende. Quali sono le principali tendenze che emergono?

«Innanzitutto le persone vogliono essere ascoltate. In particolare, la Generazione Z attribuisce grande importanza all’ascolto e all’equilibrio tra vita privata e professionale. Se le generazioni precedenti si discostavano di poco l’una dell’altra nell’atteggiamento rispetto al lavoro, la Gen Z ha cambiato tutto. Durante un nostro recente studio, una ragazza di 24 anni ci ha detto: “Se devo lavorare in un posto che mi toglie il tempo di vivere, non mi interessa quanto mi pagano”. Questo atteggiamento riassume bene la mentalità dei giovani di oggi: non cercano solo un impiego, ma un’esperienza di lavoro che si integri con le loro aspirazioni personali».

Le aziende capiscono questo cambiamento?

«Gran parte delle aziende e degli imprenditori non comprendono questa cesura generazionale, qualcuno si adatta, cerca di capire, le imprese più lungimiranti hanno iniziato a introdurre ad esempio programmi di welfare che includono supporto alla salute mentale, giornate libere extra e orari flessibili, anche se non sono esaustivi per comprendere fino in fondo la Generazione Z».

Uno degli aspetti più rilevanti della ricerca è il ruolo della leadership. Quanto conta la qualità della gestione aziendale nell’attrattività verso i giovani?

«La leadership è cruciale. Durante un progetto di consulenza con un’importante azienda tech, uno dei dipendenti più giovani ci ha raccontato: “Non voglio lavorare per qualcuno che non si interessa di me come persona”. Questa frase riflette perfettamente ciò che la Gen Z si aspetta dai leader: empatia, trasparenza e un approccio personalizzato».

Non basta più un top brand attraente? Noi boomer avremmo fatto carte false per entrare in aziende dai marchi blasonati...

«Il brand famoso ha perso valore agli occhi dei giovani. Vent’anni fa non era così, tutti sognavano di entrare in un’azienda di consulenza top o di fashion. Non basta nemmeno più essere competenti tecnicamente, un leader oggi deve saper ascoltare e dimostrare di valorizzare il talento individuale. Per esempio, un’azienda con cui collaboriamo ha avviato un programma di leadership inclusiva, fornendo ai manager formazione su come costruire un rapporto di fiducia con i propri team. I risultati? Un aumento del 20% nella soddisfazione dei dipendenti in meno di un anno».

La flessibilità lavorativa è diventata un tema centrale nel dibattito aziendale. Come si pongono i giovani di fronte allo smart working e al lavoro ibrido?

«I giovani preferiscono modelli di lavoro flessibili, ma non vogliono sentirsi isolati. Abbiamo condotto un’indagine in cui il 65% dei partecipanti sotto i 30 anni ha dichiarato di voler lavorare in un modello ibrido, perché permette di mantenere un equilibrio tra autonomia e interazione sociale. Un giovane ingegnere che abbiamo intervistato ci ha detto: “Adoro lavorare da casa quando devo concentrarmi, ma vengo in ufficio per collaborare e sentirmi parte di qualcosa”. Tuttavia, il lavoro ibrido funziona solo se supportato da strumenti adeguati e una cultura aziendale che promuova il coinvolgimento anche a distanza. È dura far capire che una persona può lavorare bene anche se non è sempre sotto controllo».

La vostra società redige anche una classifica dei luoghi di lavoro più attraenti per la Generazione Z. Cosa hanno di speciale?

«Non sono eccezionali dal punto di vista architettonico, ma spazi di lavoro nel quale il collaboratore si sente accolto, si sente bene. Dal punto di vista strettamente della struttura fisica, non c’è quella giusta o quella sbagliata perché la scelta deve rispondere anche alla funzionalità operativa dell’azienda. È il clima che fa la differenza. Non basta più il calcioballila. O, meglio, se l’imprenditore mette il calciobalilla e poi guarda male il dipendente che ci gioca, non ha alcun senso. È una situazione che incontriamo spesso: l’azienda mette una cosa carina e poi il capo fa le battutacce a chi la usa».

Abbiamo capito che il calciobalilla è un po’ passato di moda, ma allora qual è l’ambiente ideale di lavoro per la Generazione Z?

«Non dovete pensare all’ufficio salotto o alla fabbrica linda e scintillante, ma al luogo di lavoro inclusivo. Una parola che dice molto più di quello per la quale finora è stata utilizzata nel mondo del lavoro: l’inclusione non è solo una questione di equità, ma anche di performance aziendale. Durante un workshop con una grande azienda multinazionale, una giovane collaboratrice ci ha detto: “Per me, sapere che il mio posto di lavoro è inclusivo non è un bonus, è una condizione necessaria”. Questa generazione non tollera discriminazioni o ambienti tossici, e le aziende che non adottano politiche di inclusione rischiano di perdere i talenti migliori. Abbiamo visto che le imprese che investono in programmi di diversity & inclusion non solo attraggono più giovani, ma registrano anche un miglioramento significativo nella produttività e nel senso di appartenenza dei dipendenti».

Guardando al futuro, quali sono le principali sfide che le aziende dovranno affrontare per attrarre e trattenere i giovani?

«Le aziende devono cambiare prospettiva e anche in fretta. Non basta più offrire un buon stipendio: bisogna costruire un ambiente di lavoro che sia stimolante, inclusivo e capace di offrire opportunità di crescita reale. Un giovane professionista ci ha detto recentemente: “Se non vedo un futuro chiaro in un’azienda, non ho problemi a cercare altrove”. Questo riflette la mentalità fluida della Generazione Z, che non ha paura di cambiare lavoro se non trova ciò che cerca. Le imprese devono quindi investire in programmi di formazione continua, in leader capaci di ispirare e in un sistema di valori che rispecchi le aspirazioni delle nuove generazioni. Solo così si può costruire un rapporto duraturo e vantaggioso con i giovani talenti».

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